Rapporto del XXIV viaggio a Gaza
Gaza, 9 febbraio 2009
Dall’Associazione Gazzella-Onlus
Sulla via del ritorno in Italia
Scrivo dopo dieci giorni dal mio arrivo nella Striscia di Gaza (via Cairo, poi ci vogliono circa 6-7 ore di macchina per arrivare a Rafah). Sono riuscita alla fine a passare, dopo un giorno e mezzo di attesa al confine egiziano di Rafah, portando con me il carico di medicinali comperati in Egitto. Inizialmente sono stata bloccata perché i funzionari preposti adducevano la mancanza di una dichiarazione dell’ambasciata italiana che attestasse che io entravo a Gaza a mio rischio e pericolo. Assieme a me, in attesa, sotto un caldo a cui mi ero disabituata, aspettavano giornalisti, fotografi free lance, cooperanti di diverse Ong ed Associazioni. Mi hanno rimandata indietro. Sono tornata all’albergo distante una cinquantina di chilometri. La mattina successiva alle nove mi sono ripresentata al confine. Dopo oltre tre ore di discussioni animate, cercando di mantenere la calma, ho convinto l’impiegato di turno a farmi firmare una sorta di autocertificazione nella quale io dichiaravo di entrare nella Striscia a mio rischio e pericolo, senza più tirare in ballo la nostra ambasciata. Entrare, non entrare, molto è lasciato alla discrezione degli amici egiziani.
Nella parte palestinese di Rafah mi aspetta Mustafa Barghuti, medico e presidente del PMRS (Palestinian Medical Releif Society, referente di Gazzella). Rimaniamo chiusi in un’ambulanza che somiglia più ad un nostro pulmino, per ore, in attesa che facciano entrare un gruppo di medici libici. E queste ore di attesa, il caldo, la tensione assieme alla stanchezza già accumulata nel precedente viaggio fin lì, daranno inizio ad un persistente malessere intestinale che mi ha accompagnato durante tutta la mia permanenza, oltre ad una sorta di congiuntivite agli occhi che si sarebbe manifestata più avanti, per il contatto, credo, con l’aria avvelenata tra l’altro dal fosforo bianco; e questa è l’aria che respirano tutti i giorni i bambini e gli adulti della Striscia di Gaza.
Stavolta alloggio in un piccolo albergo e non nella dependance del PMRS bombardata e andata semidistrutta lo scorso anno, a febbraio, solo pochi giorni dopo che io ero rientrata dal precedente viaggio. Ancora non è stata ricostruita.
Gaza è deserta, non è ancora sera, pochissima gente per le strade, anche se non dichiarato ufficialmente, di fatto c’è il coprifuoco. Manca tutto. Le persone non camminano, fuggono. Eppure nel mio modestissimo albergo trovo acqua calda, saponetta e bagno schiuma, asciugamani puliti, un letto con lenzuola linde e tirate. Mi commuovo.
Ogni volta che mi appresto a scrivere un resoconto della mia vita a Gaza, mi sembra di riprendere a descrivere lo stesso identico film, la stessa trama scontata, lasciata in sospeso nella mia ultima visita. E in effetti è proprio così.
Quando mi guardo attorno e vedo le case, le scuole, le tante infrastrutture distrutte, faccio fatica a collocarle nel tempo: è successo ieri, o nel 2006 o nel 2001? Posso solo dire che è una distruzione continua, una malefica coazione a ripetere, così come si reitera la conta dei morti e feriti.
Gli amici del PMRS mi danno l’elenco dei risultati dell’operazione ‘Piombo Fuso’, ventidue giorni di massacro e occupazione militare:
Abitazioni distrutte 4.100
Abitazioni danneggiate 17.000
Moschee distrutte 20
Ospedali e scuole distrutti o danneggiati 25
Edifici pubblica sicurezza distrutti o danneggiati 31
Ponti 2
Municipalità 5
Reti idriche e fognature 10
Autoambulanze e veicoli di protezione civile 20
Reti elettriche 10
Strade (km) 50
Fabbriche e negozi 1.500
Complessivamente i danni ammontano a circa 380 milioni di dollari. Ovviamente a questi danni materiali dobbiamo aggiungere i danni non monetizzabili, eufemisticamente definiti dagli israeliani casualties: gli oltre 1300 esseri umani uccisi e gli oltre 5.000 feriti.
Ed è proprio da quest’ultimo dato che voglio partire. Poco prima di arrivare a Gaza avevo letto sul Corriere della Sera un articolo a firma di uno dei pochi giornalisti al quale era stato permesso (strano no?) l’accesso nella Striscia, immediatamente dopo il “cessate fuoco”; egli informava l’opinione pubblica italiana che da un sopralluogo da lui effettuato negli ospedali, in particolare all’ospedale al-Shifa di Gaza, risultava che non vi fosse sovraffollamento di feriti, quindi l’articolo sottintendeva che “i feriti non fossero poi così tanti come proclamato dalle fonti palestinesi”.
Mi sono proposta quindi di andare nello stesso ospedale a vedere la situazione. Ho trascorso molti giorni del mio soggiorno a Gaza proprio all’ospedale al-Shifa.
Dei pazienti ricoverati a causa delle ferite riportate nel corso dell’attacco c’erano solo, ovviamente, i casi i più gravi; la sala di rianimazione aveva ancora tutti e 10 i posti letto occupati. Non ha altri posti letto!
Gli uffici amministrativi dell’ospedale sono stati e sono sovraffollati per la ragione che mi ha spiegato il dott. Raed al-Alreeni, riporto alla lettera le sue parole:
“ I feriti che sono arrivati allo Shifa durante i 22 giorni di attacco sono stati curati, ricoverati e poi in parte dimessi. Adesso facciamo tutto il lavoro amministrativo che non è stato possibile espletare durante l’emergenza, ovvero registrare tutte le persone che sono passate dall’ospedale durante l’attacco israeliano. Adesso, i genitori o i parenti dei feriti vengono qui per presentare la documentazione relativa ai loro cari. Oltre 800 feriti sono stati trasferiti all’estero, di questi 600 sono stati ricoverati negli ospedali palestinesi in Egitto e gli altri distribuiti negli ospedali del Qatar, del Kuwait, della Turchia e della Giordania. Purtroppo gli ospedali palestinesi pubblici in Egitto non sono in grado di far fronte alle cure che taluni casi necessitano, sia per mancanza di attrezzature, di materiale sanitario, di norme igieniche, ma anche di professionalità. Abbiamo già avuto di ritorno 13 morti.”
Questa dichiarazione del dott. al-Areeni mi ha dato la prima conferma di quanto già sapevo, ovvero come l’informazione sul massacro israeliano durato 22 giorni sia stata in effetti una “non-informazione”, una informazione capziosa. Ridimensionare il numero degli uccisi e dei feriti (come già fatto dopo il massacro di Genin del 2002), è il primo passo per poter poi sostenere che si dissotterrano cadaveri dai cimiteri per metterli in posa sulle macerie ad uso dei media e infine che i resistenti usano i bimbi come scudi umani. Alle vittime oltre alla disgrazia di essere vittime si accolla anche l’onta di comportamenti infami.
All’ospedale al-Shifa ho avuto modo di parlare a lungo col dott. Nafez Abu-Shaba primario del reparto grandi ustioni. Voglio riportare alcune sue parole. Non si tratta di una dichiarazione, ma piuttosto di un urlo di dolore e di orrore:
” Ciò che è accaduto durante l’attacco israeliano, dal 27 dicembre ’08 al 17 gennaio ’09, è indescrivibile. Definirlo un olocausto non è fuori luogo. Abbiamo avuto intere famiglie distrutte; ho visto feriti con bruciature alle quali non potevo dare soluzione e che tutt’ora mi rimangono incomprensibili, la carne continua a bruciare anche dopo le cure. Ho visto corpi deformati e straziati, ferite che sembravano di poco conto e che invece in pochi giorni portavano alla morte, coaguli di sangue incomprensibili dove le ferite non sanguinavano e per il ferito sopraggiungeva la morte. È ipotizzabile che siano state usate “armi non convenzionali” i cui effetti si protrarranno nel tempo, sia sulla popolazione che sull’ambiente. Mi chiedo e vi chiedo come tutto questo orrore possa accade nel 2009.
Nella Striscia di Gaza viviamo sotto assedio da due anni, non abbiamo la possibilità di curare i malati, non abbiamo a disposizione le attrezzature e le medicine necessarie, io stesso ho visto morire mia madre di tumore senza avere la possibilità di curarla. Ho visto donne, uomini e bambini che mendicavano la farina e il pane, con il terrore dei bombardamenti. Nell’emergenza abbiamo avuto il sostegno di alcune equipe di medici europei che hanno operato con noi, effettuavamo anche due operazioni nella stessa sala operatoria, in spazi limitati con una promiscuità igienicamente pericolosa per i feriti e per noi…..”.
A dimostrazione di ciò che dice, come se ci fosse bisogno, mi mostra le fotografie di quanto mi sta raccontando. Immagini atroci ovviamente non trasmesse dalle nostre televisioni equidistanti, ma passate spesso e per fortuna sulla rete o sui canali satellitari arabi, immagini che scaricate e diffuse hanno riempito anche le manifestazioni svoltesi in tutto il mondo contro il massacro a Gaza.
In questi giorni a Gaza – e in tutta la Striscia – si trovano molti stranieri, giornalisti, fotografi, free lance, cooperanti di organizzazioni varie. A parte – e voglio ricordalo – Vittorio Arrigoni, e i suoi compagni dell’International Solidarity Movement – che non ho avuto modo di incontrare, ma mi dicono assai provato dai giorni d’inferno condivisi con la popolazione palestinese. Fra questi “stranieri” ho avuto modo di incontrare L., una timida e sensibile giornalista di una piccola televisione via web, fatta da donne e per le donne. Aveva intervistato un’amica di Gazzella durante l’ultima dimostrazione a Roma contro la mattanza a Gaza. Poi aveva deciso di partire. Con lei ho incontrato alcuni dei nostri bambini feriti, le loro famiglie, lei si è fatta raccontare le loro storie, le loro tragedie quotidiane. Abbiamo trascorso assieme un paio di giorni. Poi è ripartita, umanamente scossa, credo frastornata da tanta crudeltà senza giustificazione.
Assieme ad Ilham, la collaboratrice di Gazzella a Gaza riprendiamo il lavoro della nostra associazione che segue i bambini feriti. Andiamo nei campi profughi di Jabaliya, Beit Lahiya, Beit Hanun, territorio devastato, campi abitati da poverissima gente, quelli dove la furia bellica e devastatrice dell’esercito israeliano si è particolarmente accanita, visitiamo i sobborghi di Gaza, Zaitun ed al-Karama.
Ilham per me è come una figlia, non ha neanche trent’anni. Eppure la guardo, è dimagrita, ha trascorso i giorni dell’attacco barricata in casa, con una nipotina neonata, con poco cibo, acqua, senza riscaldamento ed elettricità, nella speranza, lo voglio dire, di non morire come un topo in gabbia, nella speranza che la bomba cada un po’ più in là, non sopra casa tua. Mi ricordo di tempi un poco migliori quando lei ed io trascorrevamo qualche ora nei caffè che danno sul mare, nel porto di Gaza. Ora la osservo e mi dico che sembra già una vecchia, magra e raggrinzita, mi ricorda mia madre.
Per noi solo immagini di distruzione ovunque, interi quartieri praticamente cancellati dove a ricordare la loro esistenza sono rimasti solo cumuli e cumuli di macerie polverose e maleodoranti, che nascondono anche carogne di animali, pecore, galline, asini, morti assieme ai loro proprietari. Il fetore che ne emana è insopportabile, veramente trattengo conati di vomito. Per non parlare del materiale bellico sganciato a tonnellate, fra i detriti sono chiaramente visibili i residui di bombe al fosforo. Tutto intorno a una casa bombardata di al-Karama sono rimasti pezzi di fosforo, mescolati alla sabbia e ai detriti, che se toccati, o calpestati inavvertitamente, riprendono a bruciare.
I miei amici del PMRS mi dicono che casi come questi purtroppo sono moltissimi, non è stato possibile fare un monitoraggio e fino ad ora non è stato possibile neanche ipotizzare un recupero dei residui e una bonifica del territorio. Con conseguenze facilmente immaginabili. Lo stesso vale per i grandi crateri lasciati nel terreno dalle bombe che vengono eliminati rimuovendo la terra con le ruspe senza predisporre adeguate cautele per verificare la presenza di ordigni inesplosi o di sostanze tossiche rilasciate dalle bombe.
Le mie giornate trascorrono fra visite agli ospedali, ai bambini e alle loro famiglie.
Ho visto la gente fare file interminabili per acquistare un po’ di pane oppure una bombola di gas. Moltissime famiglie che hanno avuto la loro casa distrutta vivono accampati nelle tende, all’aperto, e a Gaza la sera fa freddo. Chi può fa incetta dei pochi generi alimentari nel terrore di un nuovo attacco israeliano, girano voci incontrollate, quella che va per la maggiore è che possa essere sferrato il 14 febbraio, un regalo israeliano per San Valentino. Ma spesso queste voci sono solo frutto della paura, anche se in questi giorni gli F16 da combattimento mi volavano spesso sulla testa e ci sono stati bombardamenti al confine egiziano di Rafah.
Questa è la tregua, e in questa tregua sopravvive la popolazione della Striscia di Gaza.
Ma, e lo dico con forza, ritrovo nei palestinesi sempre la stessa incrollabile determinazione nel voler restare e vivere nella propria terra e con la consapevolezza e la speranza che solo un’adeguata risposta politica internazionale all’occupazione israeliana potrà dare loro la sicurezza che tanto lo Stato di Israele rivendica per se stesso.
Un capitolo a parte devo destinarlo ai bambini di Gazzella. Le visite ai nuovi bambini in adozione, ovvero quelli feriti in questo ultimo attacco, non sono state semplici. Dopo il primo incontro negli ospedali, molti erano tornati a casa ed altri erano stati trasferiti all’estero per cure o per l’impianto di protesi dovuto all’alto numero di amputazioni di arti. Per alcuni bambini la ricerca è stata ardua: in alcuni casi la loro casa era andata distrutta e quindi la famiglia si era trasferita dai parenti; questi bambini vivono nelle zone che sono state maggiormente colpite dagli attacchi e le strade sono ancora adesso poco accessibili a causa del passaggio continuo dei carri armati israeliani.
Abbiamo visitato bambini con ferite invalidanti a vita e permanenti, amputazioni di gambe e braccia, altri ancora avevano il corpo ustionato e dovranno in futuro subire altri interventi chirurgici. Dagli altri bambini, quelli di “vecchia adozione”, abbiamo ascoltato i racconti di terrore “rivissuto” a causa della loro esperienza di precedenti ferite e traumi subiti.
Mi chiedo quale sarà il loro futuro, potranno mai avere una vita normale, dimenticare in qualche modo tutto questo male? Incontrando le loro famiglie mi sono resa conto che i danni materiali e forse anche quelli fisici, troveranno una soluzione, come già accaduto in passato. Sono insuperabili invece gli effetti dei traumi continui, l’insicurezza quotidiana, la condizione di assedio permanente a cui i bambini stanno reagendo con sempre maggior fatica. Alcuni insegnanti della scuola primaria mi dicono che i bambini sono aggressivi, oppure chiusi in lunghi silenzi, non partecipi alla vita scolastica e di gruppo.
Gli effetti dell’occupazione israeliana, infatti, si fanno sentire sempre di più: i rapporti e le relazioni interpersonali vanno “spegnendosi” pian piano. La socialità e la solidarietà che ha tenuti insieme la società palestinese vacilla. E non pagano solo i bambini. Gli adulti, per loro conto, si sentono abbandonati e condannati dalla comunità internazionale per la vittoria elettorale di Hamas alle elezioni del 2006. Molte persone che ho incontrato mi ripetono che il voto dato ad Hamas non è stato un voto “religioso”, ma di protesta contro la corruzione dell’Autorità Palestinese, contro il disinteresse di “quelli di Ramallah” alla causa palestinese, il voto è stata una richiesta di cambiamento.
A tutti i sottoscrittori e amici di Gazzella un grazie di cuore per quello che fanno. Il nostro contributo che arriva direttamente agli ospedali pubblici, ai centri di riabilitazione che curano i bambini da noi presi in cura e sotto tutela, e alle famiglie di questi bambini è diventato fondamentale. Senza questo sostegno molte famiglie non sarebbero in grado di curare i loro figli. Mi permetto però di aggiungere che alla donazione di denaro, all’affetto per i bambini e per le bambine va affiancato un percorso di rivendicazione del diritto dei palestinesi alla loro terra e al ritorno dei profughi, e il rispetto delle scelte democratiche della popolazione palestinese, scelte che non possono essere soffocato da Israele, con la complicità della comunità internazionale, con l’assedio, col massacro di un popolo, in una tragica, macabra punizione collettiva.
G. per l’Associazione Gazzella-Onlus