Coloni sionisti neoconvertiti
Coloni convertiti in West Bank e il problema dell’identità
Luca Mazzucato
TEL AVIV – Le colonie israeliane in West Bank sono al centro della disputa tra l’amministrazione
Obama e il governo israeliano. All’incirca mezzo milione di ebrei si sono trasferiti in West Bank
dall’inizio dell’Occupazione, appropriandosi della terra palestinese con l’aiuto dell’IDF. Tra i
coloni israeliani, ci sono moltissimi olim hadashim, nuovi immigrati. Spesso attirati dai forti
incentivi finanziari del governo israeliano, a volte spinti dalla chiamata divina alla conquista
della “terra promessa”. Molto spesso si tratta di ebrei convertiti: alla ricerca della propria
identità, ritrovano una nuova sicurezza abbracciando l’ideologia sionista e razzista dello slogan
“una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Si sta occupando della questione un regista
tedesco, Frank Henne, che ha incontrato e intervistato numerosi ebrei convertiti, tutti
provenienti dalla Germania e da background cristiani, trasferiti nel cuore della West Bank. Cosa
spinge così tanti tedeschi a convertirsi al giudaismo e abbracciare l’ideologia sionista
estrema dei coloni nei Territori Occupati? Ogni anno sono decine i tedeschi che si
convertono ed emigrano in Israele, secondi per numero solo agli statunitensi. Un’organizzazione
governativa israeliana, la NOAM, si occupa specificamente di favorire questo processo.
L’argomento più ovvio per la loro conversione è una forte ipercompensazione. Passare “dalla
parte giusta” della storia è un grosso problema nell’immaginario collettivo tedesco, anch’io
sento questa pressione e sono stato cresciuto con questo senso di colpa. In questo caso, la
parte giusta è ovviamente quella delle vittime dello sterminio nazista. Così senti per la prima
volta di avere il diritto ad esercitare quel nazionalismo che in Germania è proibito. Non puoi
essere un nazionalista tedesco, ma puoi diventare un nazionalista ebraico e camminare a testa
alta, perché il sionismo è la parte giusta. Ma il passaggio dalla conversione alla militanza
attiva è un passo di ulteriore rottura. Si tratta chiaramente di una diversa forma di
razzismo. Il concetto di popolo ebraico viene isolato e, invece di rigettarlo con l’antisemitismo,
in questo caso viene elevato al di sopra di tutte le altre etnie, come “cartina al tornasole
dell’umanità”, fino ad abbracciare acriticamente l’ideologia sionista e combattere per essa. I
convertiti vogliono essere “più realisti del re”, anche per il fatto che in Israele in genere i
convertiti sono considerati ebrei “di serie B”. Così questi tedeschi si trasferiscono in West Bank
e fomentano il clima di violenza e di lotta contro gli arabi: il nemico non è più l’ebreo ma
l’arabo. Credono che questa volta nessuno possa più tacciarli di estremismo. Qual è il vissuto
dei coloni convertiti che hai intervistato? Il primo incontro è stato con Nethanel von
Boxberg, che incarna il tipico stereotipo tedesco, rigido e formale; il suo nome in Germania era
Andreas, l’ha cambiato ma ha mantenuto il cognome di origine nobiliare. Gli chiedo se ha avuto
nazisti in famiglia, e lui si inalbera e risponde offeso “Certo che no!”. Anche se, come ben noto,
tutta la nobiltà era filonazista. Nethanel ha quarant’anni, si è convertito dieci anni fa e vive in
Neve Daniel con la moglie yemenita e due bambini. Proviene da una famiglia della nobiltà
tedesca ricca e protestante, fino a quattordici anni è stato fervente cristiano, poi con
l’adolescenza si è allontanato dalla chiesa e ha partecipato al movimento studentesco contro la
guerra. Attraverso le organizzazioni religiose protestanti, fin da piccolo aveva incontrato molti
ebrei. Dopo il liceo, durante un lungo viaggio in Medioriente, Iran, Siria, Libano e Israele, ha
riscoperto un bisogno di spiritualità e un suo amico ebreo lo ha invitato ad approfondire il
giudaismo. È venuto in Israele per studiare la Bibbia e poco dopo si è convertito. Come è
arrivato a trasferirsi nei Territori? Nethanel è un programmatore di software, ha deciso di
mantenere il lavoro a Gerusalemme ma trasferirsi in una colonia, sia perché per gli stessi soldi
di un appartamento a Gerusalemme ti puoi permettere una villa con piscina, ma soprattutto
perché sulla “strada di Hebron” sente una forte connessione con la terra. Dice che ha scelto di
prendere casa tra le “radici dei Re”, in una zona della Palestina descritta nella Bibbia. Le sue
idee politiche sono estreme: “Se un arabo può camminare con la kefyia in Tel Aviv, perché se
passeggio in West Bank con la mia kippah devo temere per la mia vita?”. Nethanel si sente
parte dell’impresa sionista di conquistare uno stato per gli ebrei. “Gli arabi hanno perso la
guerra”, mi racconta, “ora devono accettare che ogni nuovo stato per nascere deve conquistare
il suo spazio”. L’ironia è tragica: in questi discorsi, fatti da un tedesco, mi sembra di rivedere la
propaganda del terzo Reich, ma Nethaniel non coglie il nesso, nemmeno quando lo provoco
esplicitamente. Qual è il rapporto quotidiano di Nethanel con la popolazione palestinese
che circonda la colonia? La colonia è abitata da ortodossi, perlopiù americani recentemente
immigrati. È vietato usare la macchina di shabbat e le regole del kashrut vengono strettamente
osservate da tutti gli abitanti. La collina su cui sorge l’insediamento è nel cuore della West
Bank, sulla strada tra Gerusalemme ed Hebron, una delle zone più calde. Nethanel ha a che
fare con i palestinesi tutti i giorni, per lavoro: sono loro a costruire le colonie illegali, e poi ci
lavorano come giardinieri e operai. “Se le colonie venissero congelate”, sostiene Nethanel,
“questo è il loro unico sostentamento, perderebbero il lavoro e sarebbero i primi a protestare
per ottenere l’ampliamento delle colonie!”. In che clima crescono i bambini negli
insediamenti in West Bank? Nethanel è molto eloquente su questo punto, “Non educo i miei
figli insegnandogli chi è il nemico, ma lo imparano da soli molto presto. Per i bambini, un arabo
è un tizio che guida di shabbat. In Tel Aviv educhi i bambini a fare attenzione alle macchine per
la strada; qui li cresco mettendoli in guardia dagli arabi. I miei figli sono nati qui, hanno il diritto
di vivere qui, nessuno li può evacuare. Viviamo su una collina, nessun arabo vive sulle colline,
quindi siamo venuti e ci siamo presi la terra, che non era di nessuno”. Per capire meglio, gli ho
chiesto cosa succederebbe se un giorno suo figlio portasse a casa una goi, una non ebrea. Lui
mi ha risposto che non lo accetterebbe mai: “Mio figlio ha delle responsabilità non solo verso la
sua famiglia, ma verso tutto il suo popolo, dovrà cambiare idea. Dobbiamo mantenere uno
standard morale più alto, noi ebrei siamo i guaritori del mondo. Questo è il motivo per cui fa
scalpore che un ebreo uccida un arabo, ma non il contrario: è raro perché gli ebrei sono il
popolo più morale della terra”. Ci sono molti convertiti provenienti da paesi excomunisti?
Sì, ho incontrato diversi coloni provenienti dalla Germania Est. Uno di essi, Yair, di
madre protestante rappresenta il tipico caso di confusione d’identità. Per molte persone in
Germania orientale il problema dell’identità è particolarmente sentito. All’epoca, Israele e la
DDR erano in pessimi rapporti, in più la Germania orientale era controllata dall’Unione
Sovietica. Essere attivi nella Chiesa era di per sé già un atto di ribellione, essere attivamente
pro-israeliano era apertamente sovversivo. Yair è sempre stato affascinato dal fatto che “così
pochi ebrei, da soli, abbiano saputo sconfiggere milioni di arabi: è la dimostrazione che sono il
popolo eletto”. Durante un viaggio a Gerusalemme resta turbato e infine sei anni fa si converte
ed emigra in Israele. Anche se Yair è un colono religioso, non è monolitico nella sua scelta: per
esempio festeggia ancora Natale tutti gli anni, in omaggio ai trentacinque anni di intensa
militanza cristiana. Ho incontrato i suoi genitori, liberali protestanti, in visita dalla Germania:
non riescono a venire a patti con la conversione del figlio. Yair infatti è completamente confuso,
perso tra diverse ideologie, mi ha raccontato che ora vive tra ebrei mizrachim (provenienti dai
paesi arabi), ma che li trova rumorosi, sporchi, non riesce ad adattarsi. Caduto il muro di
Berlino, Yair lasciò la Germania perché non si sentiva più a casa, trovò la propria forza nel
sionismo, e ancora prima di convertirsi andò a vivere in una colonia in West Bank, lavorando
per un’altra ebrea tedesca convertita. La potenza dell’ideologia sionista e la vita estrema delle
colonie lo portarono ad identificarsi con i coloni e a convertirsi poco più tardi. Come può un
ebreo convertito identificarsi nell’ideologia sionista? Yair, nella sua confusione, mi ha
ripetuto spesso che vuole continuare a vivere in un insediamento religioso in West Bank, perché
così i suoi figli conosceranno le proprie origini. Ma quali origini? Tedesche, protestanti, ebraiche?
Non mi ha saputo rispondere. Le argomentazioni logiche incontrano un muro ad un certo punto,
come quando Yair ammette che, “da un punto di vista morale e politico, dovremmo ridare agli
arabi non solo la West Bank ma anche Tel Aviv, ma io sono religioso, questo è quello che Dio
vuole e io obbedisco alla legge”. In realtà si tratta spesso di buona volontà protestante
trasformata in farsa, lo spirito filantropico di aiutare le vittime dell’Olocausto, trasformato in una
grottesca e violenta caricatura. Un’altra donna tedesca che ho intervistato mi ha dato una
versione ancora differente. Comunista da sempre, venne in Israele per vivere e lavorare in un
kibbutz, per sperimentare la collettivizzazione in prima persona. Ma piano piano cominciò a
sostituire Marx con la Bibbia, ed ora lavora per una di queste agenzie ebraiche che reclutano
immigranti ebrei in asia. Ma la storia dei convertiti non è nuova. Un recente libro di Shlomo
Sand getta una diversa luce sulla vicenda. Secondo Sand, la maggior parte dei cosiddetti ebrei
della diaspora, in realtà non sono discendenti dell’antico popolo ebraico. Al contrario,
provengono da popolazioni arabe e si tratta perlopiù di cristiani convertiti al giudaismo: quindi
non esistono “veri ebrei”, ma solo ebrei convertiti, che si identificano ora con la potenza
dell’ideologia sionista, oggi ancora più forte nell’epoca del relativismo e della retorica dello
“scontro di civiltà”.
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