Relazione del XXIX viaggio a Gaza
Resoconto del viaggio in Palestina Novembre-dicembre 2010
Cari amici di Gazzella, tra il 15 novembre e il 15 dicembre due volontarie di Gazzella sono andate a Gaza a trovare i bambini feriti che assistiamo. Alcuni bambini hanno avuto la visita di entrambe, altri sono stati visitati solo da una delle due. Così si è riusciti a raggiungere un numero maggiore di bambini. Ringraziandovi del sostegno che continuate generosamente a dare, vi mandiamo i due resoconti di viaggio.
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Torno a Gaza dopo quattro mesi e nulla è cambiato. Percorso il “corridoio gabbia” di Erez, che collega i Territori occupati alla Striscia di Gaza, ritrovo macerie, povertà e miseria. Sulla strada verso Gaza city incontro tanti ragazzini che raccolgono sassi da vendere alle fabbriche per essere ridotti in polvere e trasformati in materiale da ricostruzione. La raccolta sassi è diventata un’attività diffusa e la gente pur di sopravvivere si ingegna come può. Altri raccolgono resti di macerie di case distrutte durante l’operazione “piombo fuso” inconsapevoli che quel materiale potrebbe essere contaminato da sostanze tossiche utilizzate durante gli attacchi. Non è facile trovare il materiale per la ricostruzione, se non pagandolo a caro prezzo e proveniente dal “ mercato dei tunnel”.
Da una settimana il governo israeliano ha permesso ai gazesi l’esportazione di prodotti, ma solo fiori e fragole. Assai poco per una popolazione che subisce un embargo da tre anni, e che è costretta a vedere i mercati riforniti di generi alimentari, ma senza la possibilità di acquistarli perché, nella striscia di Gaza, la disoccupazione è oramai alle stelle.
Le visite ai nostri bambini mi portano, in molti casi, in luoghi ancora distrutti, maleodoranti, in un ambiente contaminato dal fosforo bianco, dove capita di trovare ancora resti di materiale bellico dell’operazione “Piombo fuso”. A Gaza non è attivo alcun progetto di tutela della salute, di prevenzione sul territorio. La popolazione vive ancora in condizioni di precarietà tra le macerie, senza corrente elettrica se non per poche ore al giorno. Vedendo tutto questo mi chiedo dove finiscano i miliardi stanziati dalla cooperazione internazionale che vengono inviati al governo di Ramallah, soldi che saranno investiti, magari, per progetti di cui la popolazione di Gaza non ha bisogno.
Al contrario, è tangibile la consapevolezza, tra la gente di Gaza, della carica di solidarietà insita nella carovana Viva Palestina, alla quale Gazzella ha contribuito con un furgone, un carico di ventiduemila euro di medicinali e quindici carrozzelle, o nella spedizione della Freedom Flottilla I e II (che è in preparazione per il marzo 2011) non tanto per i materiali che i volontari internazionali trasportano ma perché con queste iniziative si dà voce ai diritti di più di un milione e cinquecentomila palestinesi e si dà forza al riconoscimento dell’identità nazionale palestinese.
Quando mi trovo a scrivere il resoconto del viaggio, tendenzialmente tendo a dare un’informazione più strettamente legata alla vita sociale, e tralascio le emozioni che provo, che vivo e che mi accompagneranno sempre. Come quando, nell’autunno del 2008, ho accompagnato il piccolo Yasser all’ospedale al-Shifa di Gaza per essere sottoposto ad una risonanza magnetica. La risonanza magnetica, che Gazzella avrebbe sostenuto economicamente, si doveva fare nella speranza di poter stabilire se fosse stato
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Roma, dicembre 2010possibile sottoporlo ad un intervento. Yasser era stato ferito nel 2007 e un proiettile gli si era conficcato nel collo. Non era stato possibile rimuoverlo e Yasser è rimasto paralizzato, con una tracheotomia che lo aiutava a respirare. Yasser era un ragazzino di 13 anni di colorito pallido con due grandi occhi.
Invece dopo un primo esame RX ci dissero che la risonanza era rischiosa perché avrebbe potuto far muovere il proiettile. Ricordo il dolore del padre e del fratello ed io che guardavo con rabbia la lastra RX dove il proiettile era ben visibile. Yasser era un bambino sostenuto dalla nostra associazione e grazie al contributo economico del suo adottante ha vissuto un po’ meglio questi ultimi due anni, affrontando spese mediche e tentativi di riabilitazione. Dopo un ulteriore tentativo di intervento chirurgico in Egitto, la scorsa estate, Yasser è rientrato a Gaza dove è morto il 18 ottobre u.s.. Con grande tristezza abbiamo comunicato ai sostenitori di Yasser la dolorosa notizia.
Bisogna denunciare queste morti che restano sconosciute, e che nessuno menziona. Un’operazione armata che causa nell’immediato più di 1.400 morti non si può nascondere, la morte di Yasser, e di chissà quanti altri – pur conseguenza della stessa mattanza – sì. Ecco noi cerchiamo di fare questo: non occultare le morti dei bambini e delle bambine palestinesi, quelle morti che il mondo tace, che arrivano lente, spesso accompagnate da tanta sofferenza. Gli occhi di Yasser esprimevano tutta quella sofferenza.
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La visita a Saed mi ha sollevata. Saed, ferito nel luglio del 2006 durante l’operazione “Summer Rains”, era poi stato sempre in punto di morte. Gambe, braccia e addome, distrutte da armi “non convenzionali”.
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Saed e’ riuscito a sopravvivere, gli hanno rimosso il ‘porter’ che aveva nello stomaco e, grazie alla fisioterapia e a scarpe ortopediche appropriate può ora camminare senza l’aiuto delle grucce. Il bambino ha bisogno ancora di un intervento alle gambe. Ho cercato le foto nell’archivio, perché così posso trasmettervi, anche con le immagini, i miglioramenti che Saed ha fatto, grazie al sostegno ricevuto e alla sua forza vitale.
Ho proseguito le visite nei campi profughi di Jabaliya, Beit Hanun, El Magazin, El Burej. In queste case povere, dove non c’è acqua e il sistema fognario è inesistente e tutto si scarica nel terreno in un riciclo continuo di inquinamento, ho sempre trovato tanta accoglienza. Chi mi offriva un caffè, un tè o un’arancia.
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Il governo di Gaza cerca di tenere monitorati i bisogni della gente attraverso centri locali di assistenza raccogliendo anche indicazioni di eventuali abusi e violenze, che purtroppo sono frequenti anche in famiglia. Ho visitato una Casa di accoglienza per “bambini illegali”. Così vengono definiti i bambini che le madri partoriscono fuori dal matrimonio. Un tempo questi bambini erano destinati a entrare in una struttura e a restarvi fino all’età adulta, considerati soggetti senza diritti. Negli ultimi anni si è cercato di farli accettare dalla società anche attraverso l‘adozione. Prima dei sei mesi di età questi bambini non vengono dati in adozione, ciò per verificare che il bimbo non sia portatore di handicap. Poi può essere dato in adozione a famiglie che non hanno figli. Tuttavia anche in caso di affidamento a famiglie l’istituto non perde le tracce del bimbo e la sua crescita e formazione viene tenuta sotto controllo. Nella casa di accoglienza vi è il Kinder Garden per i piccoli ospiti, mentre quelli più grandi sono indirizzati alla scuola pubblica. Questa Casa, gestita da una associazione islamica, mi ha positivamente colpito non solo per l’attività a favore dei bambini, ma anche per la capacità di affrontare un tema come quello della gravidanza fuori dal matrimonio senza colpevolizzare e condannare la donna, nel tentativo, anzi, di far conoscere, favorendo l’adozione, la condizione dei “bambini illegali” con l’auspicio che – in un prossimo futuro – la madre naturale possa decidere di crescere da sola il proprio figlio, consapevole di non essere più emarginata dalla società.
*** Dopo l’operazione “Piombo fuso” Gazzella si è attivata anche attraverso un programma di ricerca.
Tale programma è volto a monitorare eventuali effetti derivanti dall’uso delle “armi non convenzionali”. Stiamo cercando di pubblicizzare alcuni Studi pilota che aiutano a comprendere come il fosforo bianco e altre sostante tossiche e cancerogene ritrovate nel suolo dei crateri, nella polvere di bomba e nell’acqua, usate durante gli attacchi, porteranno conseguenze nefaste sulla salute e sulla crescita dei bambini e delle bambine.
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Il viaggio di rientro nei Territori occupati è stato, come al solito, segnato dai controlli ad Erez, dal “body-scan”, e dalle lungaggini pretestuose nel controllo del bagaglio. Ho lasciato Gaza, ma già pensavo al prossimo viaggio.
G.
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Finalmente e con molta emozione sono riuscita a tornare a Gaza, dove ero andata per l’ultima volta nel 2005, prima che smantellassero le colonie israeliane. Ingenuamente mi ero convinta, subito dopo questo sgombero, che gli abitanti di Gaza, senza gli israeliani, sarebbero comunque stati meglio. Ma mi sbagliavo, e molto. Gaza si è trasformata in una grande prigione in cui il valico di Erez rappresenta il muro di cinta: è difficilissimo per noi (e praticamente impossibile per i palestinesi della Cisgiordania) entrare e, per gli abitanti di Gaza, è altrettanto impossibile uscire. Infine è molto difficile per i palestinesi entrare e uscire da Rafah per e dall’Egitto.
All’arrivo ad Erez si trova un grande cartello blu scritto in inglese, arabo e israeliano: WELCOME TO EREZ CROSSING.
Tuttavia tutto sembra studiato per rendere l’entrata a Gaza molto traumatica e complessa. Personalmente ero terrorizzata che gli israeliani trovassero una scusa per non farmi passare. Il controllo del passaporto è doppio. Per questo sono arrivata la mattina presto per non trovare troppa gente, ma comunque i militari israeliani hanno trovato il modo di farmi fare una lunga attesa senza dare spiegazioni. Al secondo controllo, e già con un foglietto scritto che diceva, credo, che ero nella lista delle persone che avevano un valido permesso di entrata, mi hanno bloccata dicendo che dovevo avere una “new coordination” e alla mia timida richiesta di spiegazioni non hanno risposto e mi hanno detto di aspettare. La “new coordination” era un timbro che mancava nel primo controllo, quindi una cosa che loro avrebbero dovuto fare e si erano dimenticati di fare. Risolto questo problema finalmente mi sono potuta incamminare nel lungo corridoio che porta all’entrata controllata dai palestinesi, dove il controllo sembra essere unicamente fatto allo scopo di evitare l’entrata di alcool.
La popolazione di Gaza, in costante aumento, è arrivata a contare 1.750.000 persone in un territorio lungo 40 Km e largo 10 Km. Con gli avvenimenti degli ultimi anni e soprattutto con l’operazione “Piombo Fuso” (dicembre 2008-gennaio 2009) che ha causato la morte di 1400 persone, un numero molto alto di feriti e la distruzione di centinaia di edifici pubblici e privati, non mi aspettavo di vederla molto più costruita di quanto non fosse nel 2005. Ora, invece, nonostante tutto strade asfaltate la attraversano in tutte le direzioni. Nel 2005 per esempio, per andare da Gaza city a Rafah nel sud, non era possibile utilizzare solo l’automobile ma era necessario fare tratti a piedi e altri con i carretti tirati da somari. Adesso si riesce ad arrivare in macchina quasi dappertutto. Sono sorte inoltre centinaia di nuove costruzioni alte e basse, belle, brutte e bruttissime, isolate nel nulla o concentrate a decine, sane, bucherellate o distrutte durante “Piombo Fuso”.
Con la ragazza del Medical Relief Society che collabora al progetto di Gazzella, abbiamo visitato alcuni dei bambini adottati, dando la precedenza a quelli feriti durante l’operazione Piombo Fuso. Le zone abitate dalle famiglie di questi bambini sono quelle più colpite dalle bombe sganciate dagli aerei o/e dai
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proiettili sparati dai carri armati. Molte case sono ancora ridotte in macerie e moltissime portano i segni dei bombardamenti. Alcune famiglie hanno ricostruito la loro casa, altre vivono in case semidistrutte e pericolanti perché non sanno dove altro andare. Altre famiglie ancora vivono in tende vicino alla loro casa distrutta. Tra le famiglie che ho visitato ne ho trovate alcune che vivono in situazioni miserabili, con case sporche e in una situazione di forte degrado, mentre altre ugualmente poverissime hanno case pulite con mamme e bambini sorridenti che fanno sperare in un futuro migliore.
La situazione dell’infanzia a Gaza è molto peggiorata. La scuola dura poche ore con un turno la mattina e uno il pomeriggio. I maestri sono pochi per mancanza di fondi con cui pagarli e le classi molto numerose. I bambini con problemi, come molti dei nostri adottati che sono stati feriti, a volte non vengono accettati a scuola perché il maestro non li può seguire e accudire. Non esistono sufficienti centri dove i bambini che ne hanno bisogno possano fare fisioterapia e riabilitazione. Per fortuna alcuni dei nostri bambini sono migliorati e altri sono guariti, ma quelli che hanno bisogno di cure continue per stare meglio, spesso non possono avere quello che necessita loro. Le famiglie in genere sono molto numerose, hanno tanti figli da accudire e non hanno la possibilità di dedicarsi a quello/i ferito/i come si dovrebbe. A volte sono le sorelle e i fratelli maggiori, magari aiutati dai rispettivi mariti e mogli, che si occupano del fratello ferito e handicappato. Quasi nessun padre dei bambini feriti adottati da Gazzella lavora ed il numero dei figli per famiglia va da un minimo di 4-5 a un massimo più frequente di 10-12. Durante l’operazione Piombo Fuso sono morte anche madri di famiglia con molti bambini. Ci sono casi estremi come quello di una famiglia con 12 figli in cui la madre è morta sotto le bombe e almeno 3 bambini sono stati feriti o bruciati dal fosforo. In altri casi il padre si è risposato con donne che si occupano dei suoi figli, mentre altre volte la nuova moglie non ne vuole sapere e allora la situazione peggiora. I bambini più fortunati riescono ad essere accettati in un doposcuola di qualche ONG dove sono seguiti per lo studio e dove fanno anche altre attività formative e ricreative. La maggior parte dei bambini e ragazzi però non ha altro da fare che giocare in una strada polverosa. Di questa situazione come di tutti i bambini visitati ho scattato fotografie che saranno spedite agli adottanti.
Il sostegno che i bambini e i genitori ricevono da Gazzella, oltre ad aiutarli a sopravvivere, li fa sentire meno soli. Penso che sia molto importante che quando parlano dei loro problemi e della mancanza, per esempio, di fisioterapia – se ne hanno bisogno – o di un aiuto per curarsi i denti distrutti da una scheggia, trovino un interlocutore disposto ad ascoltarli e possibilmente ad aiutarli, perché vivono in un grande isolamento che a volte toglie loro qualsiasi speranza di poter un giorno vivere una vita migliore.
Rispetto al mio ultimo viaggio del 2005 alcune cose mi hanno particolarmente colpita. Anzitutto sono rimasta molto scioccata dalla massiccia campagna in atto contro la droga. Gaza è tappezzata di manifesti con scritte contro la droga e foto di cocaina, pillole e hashish. Pare che le droghe arrivino in quantità e che rappresentino un grosso problema soprattutto fra i giovani. Poi una novità, ma migliore: la presenza in strada di un gran numero di motociclette, quasi tutte nuove fiammanti. Mi è stato detto che sono cinesi, costano circa 1000 dollari e arrivano attraverso i tunnel. Fra l’altro, non essendo gli abitanti di Gaza esperti motociclisti, hanno molti incidenti e di questi spesso mortali. Certo, le motociclette sono utilissime perché servono per portare i bambini a scuola, anche due per volta e per trasporti di ogni genere. Non ho visto nessun motociclista con il casco. Infine quello che non mi aspettavo di vedere sono stati i negozi pieni di tutto: cibo, detersivi, prodotti di profumeria, vestiti….. Molti prodotti sono israeliani e costosi, altri, che arrivano dall’Egitto attraverso i tunnel, sono meno cari, ma comunque sempre troppo dispendiosi per una popolazione che ha un livello di disoccupazione del 75%. Sui prodotti che arrivano attraverso i tunnel lucra sicuramente l’Egitto e comunque anche il governo di Hamas riscuote una tassa su tutti i prodotti che non siano di prima necessità.
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Gazzella ha operato sempre a Gaza soprattutto con la collaborazione del Medical Relief Society senza chiudere le porte ad altre collaborazioni e altri progetti, come è stato per l’allestimento del reparto neonatale all’ospedale pubblico al-Shifa, totalmente finanziato da Gazzella, con il progetto di sostegno ai bambini sordomuti in collaborazione con l’associazione I’mar di Khan Younis, ecc. Nella speranza che nel prossimo futuro non ci siano nuovi bambini feriti, abbiamo deciso di sostenere anche bambini non feriti, ma portatori di un handicap grave. Abbiamo quindi adottato diciassette bambini con handicap gravi in
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collaborazione con l’associazione Hanan di Gaza, un’associazione laica, come l’associazione di Soccorso medico, nostro principale riferimento a Gaza, con molti progetti di sostegno all’infanzia, che ha come fine quello della “promozione della salute psicosociale dei bambini vittime della guerra”. I bambini di Gaza sono tutti vittime della guerra e dell’occupazione israeliana.
Ho incontrato i volontari di Hanan e con loro sono andata a visitare le famiglie dei 17 bambini che abbiamo deciso di sostenere. Sono tutti bambini che hanno un handicap grave e la cui famiglia è estremamente povera. Una buona parte di questi bambini è cerebrolesa, spesso per mancanza di ossigenazione al momento della nascita. E queste sono le ragioni: alcuni bambini, la cui madre ha avuto una gravidanza difficile, non sono nati in ospedale perché cadevano le bombe israeliane e la mamma non ha potuto essere trasportata, oppure c’era un carro armato israeliano fuori della porta che non lasciava uscire nessuno, oppure in famiglia esiste un problema genetico che non è stato diagnosticato perché è stato distrutto il centro di diagnostica prenatale, e via discorrendo….. Un caso emblematico è quello di un bambino bellissimo biondo, idrocefalo e ritardato che durante l’operazione Piombo Fuso ha respirato molto fosforo e stava visibilmente male. Il padre ha cercato in tutti i modi di portarlo subito all’ospedale ma i militari israeliani di un carro armato fermo davanti alla loro casa non li ha fatti uscire ritardandone di molto il soccorso con un risultato disastroso.
L’associazione Hanan mi ha dato un’impressione di grande efficienza. I bambini sono stati scelti molto accuratamente e sono tutti molto poveri. Prima di entrare in ogni casa mi venivano date tutte le informazioni sulla famiglia che era sicuramente già stata visitata dai nostri accompagnatori che ne conoscevano l’indirizzo e i problemi di tutti i membri. Hanan ha alle sue dipendenze una sola persona stipendiata, mentre le altre prestano lavoro volontario extra lavoro. Oltre all’ufficio con 2 vecchi computer la sua sede ha altre 4 o 5 stanze che vengono usate come aule, con banchi e sedie. In queste aule diversi volontari tengono lezioni principalmente di arabo e matematica, ma anche di altre materie come inglese e svolgono altre attività come per esempio canti corali o lezioni di pittura. Gli studenti sono bambini e ragazzi che per le ragioni più svariate vanno male a scuola e sono rimasti indietro rispetto ai compagni di classe. Dato che in tutte le scuole di Gaza ci sono turni di mattina e di pomeriggio, i bambini che frequentano le classi di Hanan vanno a scuola regolarmente e l’altra mezza giornata frequentano i corsi Hanan. Mi è piaciuta molto l’atmosfera della scuola. Si respira una grande serenità e tutto sembra avvenire con semplicità ed efficienza. Ho partecipato anche ad una festa organizzata da un doposcuola di Hanan. Il palazzo che ospita il doposcuola è dell’UNWRA che lo mette a disposizioni di ONG e associazioni palestinesi che organizzano attività per i bambini. I bambini che frequentano questo doposcuola vivono tutti in situazioni svantaggiate. Famiglie molto numerose e molto povere, ambienti degradati, madri morte, bambini o ragazzi ritardati e/o disturbati. Le attività vanno dallo studio per il recupero scolastico, al canto o alla recitazione. Vedendo la felicità e l’allegria dei bambini sia quelli che recitavano sul palco, che gli spettatori, non avrei assolutamente potuto capire o pensare che mi trovassi di fronte a ragazzi molto difficili che venivano quasi tutti da situazioni estreme.
Un’altra attività dell’associazione Hanan che sono andata a visitare, è una scuola di ricamo (e vendita dei manufatti). Il lavoro delle donne è un serio problema perché con l’alto tasso di disoccupazione e l’alto numero di figli nelle famiglie, le donne sono praticamente escluse dal mercato del lavoro. A parte il diritto delle donne ad essere indipendenti e ad avere un lavoro fuori casa, a parte la disoccupazione dei mariti e il fatto che spesso il salario del marito non basta a mantenere la famiglia, ci sono molti casi in cui sarebbe indispensabile che le donne avessero un lavoro indipendente pagato. Ci sono infatti vedove con molti figli, donne che hanno il marito che si droga, e molte altre tipologie di famiglia in cui uno stipendio della madre sarebbe auspicabile. L’insegnamento e anche l’organizzazione e l’amministrazione del centro (che è stato costruito e organizzato con denaro svedese ed è intitolato a Olof Palme) è tutto sulle spalle di una donna che ha 4 figli, vive a Jabalia ed è aiutata a sua volta nella gestione dei propri figli dalla sua mamma. Le donne di Hanan mi sono sembrate particolarmente in gamba. Mentre gli uomini in genere si disinteressano totalmente dell’organizzazione della loro famiglia e sono le donne che se ne occupano facendosi aiutare dalle loro madri ma sempre gestendo loro anche l’organizzazione dell’aiuto domestico. Inoltre, le donne che ho incontrato parlano tutte inglese mentre gli uomini raramente e sono quindi le donne che curano anche i rapporti con l’esterno. Quando ho cercato di indagare come mai succedeva questo, le risposte sono state: Ho fatto un corso in internet la sera quando i bambini dormivano, l’ho imparato sentendo le canzoni e usando il vocabolario per capire le parole, me lo sono fatto insegnare da una cugina che lo ha imparato all’università ecc. Ho chiesto anche a queste donne che non sono musulmane praticanti come mai si coprissero il capo. Mi
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hanno risposto in generale che prima non lo facevano ma che hanno cominciato a farlo durante la seconda intifada per non essere importunate dagli uomini, dato che girano molto anche da sole e anche di sera.
Pensavo che con la vittoria di Hamas la situazione delle donne fosse peggiorata. Certo il governo di Hamas costruisce molte moschee. Quando ricostruisce qualche palazzo, costruisce anche una moschea. Ma tuttavia nei caffè e nei ristoranti degli alberghi si vedono ragazze giovani e meno giovani che a capo scoperto lavorano al computer o chiacchierano con altre ragazze o anche ragazzi. Ragazze sole pigliano taxi collettivi e girano per la città. Certo l’alcool non si beve in nessun luogo, ma nella mia prima visita a Gaza, quasi 20 anni fa era quasi la stessa cosa: ho trovato una birra solamente in un club frequentato da giornalisti stranieri!
A conclusione del mio viaggio a Gaza, sono più ottimista di prima. Ho notato una grande energia e una non rassegnazione. Vista dall’Italia Gaza mi sembrava un luogo senza speranza di futuro. Invece ho incontrato tanta gente che non si dà per vinta e che lavora per un futuro migliore. Credo che sia molto importante aiutare queste persone e le loro associazioni che faticosamente lavorano perché la gente stia meglio, e non solo materialmente. Penso sia un dovere che dobbiamo continuare ad assumerci.
S. Un saluto a tutti gli amici di Gazzella