intervista alla volontaria di Gazzella a Gaza
La lotta dei palestinesi è la lotta di tutti noi.
Intervista a Giuditta Brattini
di Valerio Guizzardi e Gigi Roggero
“I giovani che si stanno ribellando a Ferguson si percepiscono e comprendono di essere non diversi dai giovani di Gaza”, ci diceva nella sua intervista Sam Anderson. Il riferimento non è evidentemente casuale, perché la lotta dei palestinesi è una lotta di tutti e per tutti. Lo spiega molto bene e in modo dettagliato Giuditta Brattini, una compagna che da molti anni si impegna concretamente al fianco della quotidiana resistenza palestinese. È a Gaza da alcune settimane per il monitoraggio degli ospedali pubblici della Striscia e per il progetto “Gazzella Onlus” per seguire i bambini in adozione, bambini che in questi anni sono rimasti feriti sotto gli attacchi israeliani. L’intervista permette da un lato di comprendere la situazione nella Striscia di Gaza e lo sviluppo della resistenza, dall’altro di sgomberare il terreno di movimento da troppe incertezze e distinguo, per non parlare degli imbarazzanti e complici silenzi, che in queste settimane hanno indebolito la possibilità di costruire una mobilitazione forte a sostegno della lotta dei palestinesi.
“Ho iniziato la mia attività da Rafah, visitando gli ospedali pubblici colpiti durante quest’ultima aggressione criminale israeliana. Abbiamo cominciato dall’Al Najar Hospital, con una capacità di 58 posti letti parlare di ospedale è un eufemismo. Durante i 35 giorni di attacchi israeliani, è l’ospedale che ha sopportato le maggiori emergenze dell’area di Rafah, e stiamo parlando di una popolazione di circa 300.000 persone. Per più giorni è stato bloccato dai tank israeliani, con enormi difficoltà per far arrivare i feriti. La situazione sanitaria è quella di maggior emergenza a Gaza. Gli ospedali sono stati decretati un bersaglio, Israele non ha infatti risparmiato di bombardarli, come è successo con l’Al-Wafa Hospital, l’unico ospedale per la riabilitazione a Gaza, che dopo tre attacchi è stato completamente distrutto il 19 luglio, con l’evacuazione degli ultimi 26 pazienti rimasti. Non hanno avuto vita facile nemmeno gli ospedali del nord, come quello di Beit Hanoun, a cui sono rimasti solo 15 dei 66 posti letto disponibili dopo aver subito un pesante attacco alla fine di luglio. La stessa cosa all’ospedale Al-Alaqsa di Deir al-Balah: anche questo ha subito gravi danni, addirittura durante gli attacchi ci sono stati quattro morti tra pazienti e staff medico e paramedico. Vengono quindi attaccati anche i siti sensibili, quelli che il diritto internazionale giudica sotto protezione in qualsiasi situazione di guerra, anche se non mi piace definirla così: a Gaza non è in corso una guerra, ma un’aggressione criminale contro una popolazione che resiste a sessant’anni di occupazione.”
Questa è una prima definizione fondamentale per comprendere quello che sta avvenendo: si tratta di un’aggressione criminale, di conseguenza non c’è diritto internazionale che tenga...
“Infatti, non è nemmeno rispettato per i siti sensibili, e questo vale anche per le scuole Unrwa, che sono state riaperte per dare ospitalità agli sfollati. Parliamo di 250.000 sfollati nelle scuole Unrwa e altrettanti nelle scuole governative. Anche le scuole Unrwa sono state oggetto di attacchi israeliani e qui hanno trovato la morte molti palestinesi che si erano rifugiati dopo essere stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni. Sotto l’aspetto dell’intervento umanitario la situazione è veramente pesante. Io sono arrivata mentre era in corso una tregua, inizialmente di 5 giorni, poi si è prolungata, ma come sapete da qualche giorno si è interrotta e i bombardamenti sono ricominciati. Durante la tregua una parte degli sfollati che avevano abbandonato le scuole sono tornati a casa (che, seppur bombardate o colpite da attacchi, erano in qualche maniera rimaste agibili) per riprendersi una normalità di vita. È straordinaria la capacità dei palestinesi di riprendersi la vita, anche dopo 35 giorni di attacco. Da due giorni, però, sono nuovamente sfollati nelle scuole, con il sovraffollamento, con condizioni igieniche ridotte ai minimi termini, l’acqua viene distribuita con le taniche, l’elettricità c’è solo per un paio di ore al giorno. Dunque, anche la parte igienico-sanitaria è molto carente e a rischio. Ho visitato alcune scuole di sfollati e mi dicevano che sono molto frequenti le malattie della pelle come la dermatite o la scabbia, ci sono stati parecchi casi di meningite virale, poi infezioni che portano febbre alta e stanno colpendo i soggetti più deboli, bambini e anziani; queste le conseguenze di condizioni di miseria, mancanza di igiene, che comportano diffusione di malattie infettive. Vale la pena ricordare che tutto lo staff medico e paramedico degli ospedali, durante l’operazione ‘margine protettivo’, ha lavorato in condizioni molto difficili, 24 ore su 24, in carenza di materiali monouso come guanti o siringhe, con il pericolo costante di trasmissione di infezioni. Il ministero della salute ha relazionato sul fatto che, nel corso dell’emergenza quando i feriti arrivano numerosi, i primi interventi venivano fatti nel primo posto libero, fosse anche il pavimento o un tavolo qualsiasi. È facile immaginarsi cosa questo può comportare anche per il futuro con riferimento a trasmissioni di infezioni. Lo Shifa Hospital di Gaza City – l’ospedale più grande della Striscia di Gaza, quello che sta accogliendo buona parte dei feriti che arrivano anche dalle altre località e ospedali – si trova ad avere i giardini e il piccolo parco intorno utilizzati quale accampamento per gli sfollati. Non solo gli sfollati la cui casa è stata distrutta, ma anche i parenti dei ricoverati che devono fare l’assistenza si sono fatti una tenda negli spazi pubblici attorno all’ospedale. Anche qui le condizioni igieniche sono allarmanti, non ci sono servizi igienici, non ci sono elettricità e acqua. Complessivamente queste situazioni determineranno nei prossimi mesi rischi per la salute pubblica, perché l’impossibilità di avere situazioni igienico-sanitarie con un minimo di garanzia sarà origine di altre malattie e infezioni.”
Quali sono le modalità e i problemi che incontrate nello svolgimento del vostro progetto?
“L’attività del progetto ‘Gazzella Onlus’ è difficoltosa. Sono stata nella zona nord di Beit Hanoun, vicino al border di Erez, la cittadina era irriconoscibile: case e strade distrutte, un disegno urbano modificato che ci ha messo in difficoltà nel rintracciare le abitazioni dei bambini, stante che non esiste una toponomastica. I bambini li ho trovati in buone condizioni, quelli che sopravvivono ti regalano sempre un sorriso; in questi giorni si sono affrontate con il ministero della salute le problematiche relative ai traumi che i bambini si portano dietro, l’aggressività che dimostrano tra di loro anche nel semplice gioco. Tra l’altro l’avvio della scuola, che avrebbe dovuto essere il 24 agosto, verrà sicuramente posticipato, e ci auguriamo che un mese sia sufficiente. Il ritorno a scuola dei bambini dovrebbe essere accompagnato da un recupero psicologico per i traumi subiti, per un recupero della socialità; i traumi determinati da 35 giorni di bombardamenti, di paura di non sentirsi sicuri in nessun luogo, devono essere affrontati per alleviare la sofferenza dei bambini ma soprattutto per ridare fiducia in loro stessi.”
Analizziamo ora l’aspetto più strettamente politico della situazione.
“Sotto l’aspetto politico, il fatto che giovedì siano stati uccisi a Rafah tre importanti figure del movimento di resistenza islamico Hamas innescherà probabilmente un’escalation della risposta. Il giorno prima Hamas aveva dichiarato che nessuno in Israele potrà più sentirsi sicuro in quanto continuerà il lancio di razzi su Tel Aviv, Gerusalemme e le cittadine vicine al confine con la Striscia di Gaza. Qui stiamo però parlando di un lancio di razzi che, com’è noto, non ha una direzione precisa, nel senso che non ha una tecnologia che lo renda in grado di colpire un obiettivo prefissato. Viene sparato dall’altra parte e arriva dove arriva. Faccio questa precisazione perché si continua a parlare di una guerra in atto come se ci fossero due eserciti che si stanno confrontando; invece, la realtà è di una resistenza fatta di uomini, donne e bambini che stanno sopravvivendo a un assedio alla striscia di Gaza che dura da più di otto anni e a un’occupazione da più di sessant’anni. Il diritto internazionale riconosce che un popolo può resistere all’occupazione, e il lancio dei razzi è uno strumento di resistenza. Dall’altra parte c’è un esercito con droni e aerei come gli F-16 che possono colpire con precisione tutti gli obiettivi che vogliono. C’è dunque un popolo che si sta difendendo, in nome del diritto all’autodeterminazione e che vuole un futuro; dall’altra parte c’è un’aggressione continua di un governo sionista. Io non parlo più di Israele, ma di un governo sionista. E quando qualcuno chiede perché siamo con i palestinesi e contro Israele, rispondo che sono contro il sionismo, perché il sionismo rappresenta un pericolo per l’umanità, gemello della cultura razzista, nazi-fascista. È un pericolo che se avanza ci condurrà a vivere in condizioni di oppressione, negando la possibilità di decidere liberamente. La lotta del popolo palestinese è una lotta per tutti noi. Potrà sembrare una cosa strana, ma durante un incontro pubblico a Beit Lahija lo scorso giugno ho apprezzato le parole del leader della jihad islamica che ha detto ‘il mondo, in particolare il Medio Oriente, deve guardare alla Palestina perché la resistenza è qui’. Si sta combattendo anche in Iraq, in Siria, in Libia, ormai il Medio Oriente è ovunque un focolaio di guerra, ma ha voluto precisare che la resistenza è in Palestina. Questo messaggio l’ho colto nel suo significato pieno, perché questa è una lotta contro un modello di integralismo e di colonialismo che non possiamo accettare.”
Hai definito con precisione il quadro di una resistenza che va avanti da oltre sessant’anni e che deve confrontarsi con un’aggressione criminale continua, che ogni due o tre anni prende la forma di un aperto attacco militare. I media italiani e occidentali, forse oggi ancora più che in passato, sono impegnati non solo nel sostenere Israele, ma anche in un’operazione di sistematico oscuramento e mistificazione di quello che avviene in Palestina. Ci sembra però che il livello della resistenza popolare sia il più alto negli ultimi otto anni almeno, tanto è vero che i tentativi israeliani di invasione via terra sono stati respinti. Confermi questa impressione?
“Intanto va precisato che sbaglia chi dice che Hamas è la resistenza. Oggi la resistenza nella Striscia di Gaza è fatta dalle Brigate al-Qassam, dai Comitati di resistenza popolare, dalla resistenza del Fronte popolare e anche di Fatah. Quindi, c’è stata un’unificazione di intenti e una messa in comune di tutto quello che si poteva fare per resistere a questa ennesima aggressione.”
Quello che stai dicendo è particolarmente importante perché qui, anche in ambienti vicini al movimento, c’è chi sembra praticare la politica della cosiddetta equidistanza, del tipo “né con Israele, né con Hamas”. Possiamo dire che una simile posizione equivale a dire: “con Israele”?
“Non capisco cosa significhi dire di non stare con Hamas. Hamas è un movimento islamico di resistenza che è stato eletto democraticamente nella Striscia di Gaza e nella West Bank, e che poi la comunità internazionale ha detto essere un movimento islamico terroristico e non ha voluto riconoscere il voto dei palestinesi. Si tratta di un movimento votato democraticamente, che non ha mai governato se non nella Striscia di Gaza, mentre tutti i suoi deputati e sindaci eletti in Cisgiordania sono stati arrestati nel tempo, senza poter esercitare quel diritto di rappresentanza che il popolo gli aveva dato. Dunque, dire che non si sta con Hamas oggi vuol dire che non si sta con il popolo palestinese e con la resistenza, resistenza che non è fatta solo da Hamas. Tengo a precisare che io non faccio distinzione tra resistenza armata e resistenza non armata: la resistenza è resistenza. Altrimenti finiamo nel gioco della sinistra che delegittima la resistenza armata. C’è la resistenza: c’è chi sceglie di resistere stando nella propria casa, come hanno fatto alcune famiglie di Khan Younis che sono salite sui tetti benché gli israeliani avevano intimato di andarsene, sono stati bombardati e sono morti; è la stessa resistenza di chi oggi cerca di contrastare l’assedio e l’occupazione israeliana con le armi. Resistenza è resistenza, ognuno la esercita come può. Non dobbiamo dare spazio a chi nel sostenere la resistenza non armata di fatto delegittima la resistenza armata, non c’è contrapposizione, e in tal senso anche a livello internazionale è riconosciuto il diritto a reagire e a resistere contro l’occupazione. Quindi, la resistenza in Palestina oggi è fatta anche da gruppi armati che unitamente praticano la resistenza armata a fianco della quotidiana resistenza del popolo. Oggi essere a Gaza significa resistere con i palestinesi. Anche dare continuità alla vita quotidiana è resistere, al pari del lancio di razzi contro Israele. Certe argomentazioni di basso profilo sono irrispettose di quanto sta accadendo in questo paese, qui i civili rischiano la vita tutti i giorni.
Sappiamo bene che il mondo intero non vuole riconoscere il crimine che Israele sta commettendo. Noi ricordiamo sempre gli attacchi più importanti, luglio 2006, ‘piombo fuso’ dicembre 2008, gennaio 2009, poi novembre 2012, adesso questa nuova aggressione; ma nella Striscia di Gaza gli attacchi sono quotidiani, non ci saranno oltre 2.000 morti come in questa ultima aggressione, ma qui è quotidiano il fatto di non poter vivere e di camminare per strada percependo che la morte ti cammina a fianco. Questa è la quotidianità per i palestinesi nella Striscia di Gaza.”
Il tuo discorso inquadra perfettamente la questione: la resistenza è resistenza, comprende tutti, chi combatte in modo armato e non, utilizzando i mezzi che di volta in volta sono più adatti. Tra i gruppi che ne fanno parte, esiste ancora il Fronte popolare per la liberazione della Palestina? Te lo chiediamo perché è stata, come sai, una realtà di riferimento per i militanti italiani, e da qui oggi e negli ultimi anni è difficile capire quale sia la sua consistenza e incidenza politica.
“A questa domanda posso rispondere solo parzialmente: sì, esiste, fanno una loro politica e la loro attività sul campo, con le difficoltà e i limiti che si possono immaginare. Parecchi leader o comunque soggetti impegnati nei gruppi di resistenza non sono visibili, per ovvie ragioni. Qui la vita dei palestinesi che sono ritenuti obiettivi da colpire è difficile.”
In precedenza avevi iniziato la descrizione dei gruppi che compongono la resistenza, vuoi aggiungere qualcosa sul tema?
“Non posso che riportare quello che è stato detto in un’intervista fatta a Gaza il 4 luglio dal leader delle Brigate Al-Qassam: ha ribadito la totale congiunzione di tutte le forme di resistenza all’interno della Striscia di Gaza, ognuno con le capacità materiali e fisiche che può mettere a disposizione. Ciò rende più forte la resistenza, mentre c’erano probabilmente state difficoltà durante l’attacco del 2008. Allora avvenne in modo improvviso, lasciando poco spazio a una fase di organizzazione. In questi 35 giorni abbiamo invece assistito a una resistenza palestinese forte: non solo per il numero dei soldati morti, che ovviamente rispetto ai civili resistenti morti è irrilevante, ma è significativo laddove si sono confrontate delle realtà con armamenti e tecnologie incomparabili. Israele ha dimostrato di avere grosse difficoltà nell’invasione, che sono anche determinate dal fatto che non ha una conoscenza complessiva del territorio; probabilmente questi giovani soldati israeliani, chiamati a fare il servizio militare obbligatorio dai 18 ai 21 anni, insieme ai riservisti, non hanno una vera convinzione per portare avanti uno scontro. I palestinesi invece combattono perché rivendicano il diritto alla terra e la fine dell’occupazione. Le ragioni sono quindi totalmente differenti: da questa parte si sa perché si combatte; dall’altra ho visto delle immagini di giovani israeliani che applaudivano i tank quando abbattevano una casa, questo dà la misura dei soggetti con i quali abbiamo a che fare. Possono vincere solo perché hanno un numero maggiore di soldati da mettere in campo e tecnologie incomparabilmente più potenti, senza questi presupposti non avrebbero scampo. È una lotta in cui c’è una parte convinta di quello che sta facendo e lo strappa con i denti, e dall’altra una dimostrazione di forza che non si sa nemmeno che valore abbia per loro, se non sia una semplice volontà di conquista dei territori.”
Ci interesserebbe approfondire come si sia determinato questo scarto nell’innalzamento della capacità di resistenza rispetto agli ultimi anni. Hai parlato delle varie forme in cui si esercita la resistenza, da quella sul piano militare alle famiglie che salgono sui tetti sfidando i bombardamenti. Dunque, come si esercita quotidianamente questa resistenza e che differenza c’è rispetto agli anni passati?
“Innanzitutto c’è una continuità nel valore dato alla propria terra, alla propria identità e al diritto all’autodeterminazione. Non è semplice, non c’è nessun paese come la Palestina che ha resistito a oltre sessant’anni di occupazione. E ciò con tutte le distorsioni dell’occupazione, perché ci sono i collaborazionisti e tutte quelle forme di corruzione che anche in Italia abbiamo visto nel nostro periodo di occupazione. C’è poi la distruzione della società civile, il tentativo di portare modelli nuovi di sviluppo, di contaminare la loro cultura nel tentativo di fare abbandonare il loro diritto all’autodeterminazione. Un errore che a mio avviso si sta facendo da troppi anni a questa parte è parlare di Palestina e pensare semplicemente a gruppi politici specifici: il Fronte popolare oppure Fatah, sono discorsi che ho sentito fare anche nei dibattiti tra i compagni. Dobbiamo tener ferma un’unica posizione: siamo con i palestinesi perché lottano contro l’occupazione. Certo che guardiamo a un modello di società, al quale peraltro i palestinesi si sono da sempre riferiti, però non può diventare oggi una divisione al nostro interno. Non mi sono stracciata le vesti nel 2006 quando Hamas ha vinto le elezioni, a differenza di molti altri della sinistra pro-palestinese che lo fecero. Il punto non è il partito che vince le elezioni; soffermandoci su questo rischiamo di perdere di vista la vera questione, cioè la lotta del popolo palestinese contro l’occupazione. Dopo la liberazione dall’occupazione si potrà parlare del modello di società al quale intende riferirsi.
Torno alla domanda su come si resiste. Sono stata nelle case di alcuni civili sfollati nelle scuole Unrwa. Prima dell’attacco ‘margine di protezione’ le case non avevano acqua corrente ed elettricità, dopo i bombardamenti la situazione è peggiorata. Il valore assoluto della terra e della casa è quello che li riporta ogni volta a ricominciare. Per cui le forme quotidiane di resistenza consistono anche nel voler tornare a casa, che ci sia la tregua o meno, che sia agibile o meno, mentre il fatto di andare in una scuola Unrwa viene vissuto come una perdita rispetto alla loro volontà di resistere.”
È una volontà di conquistare una propria normalità di vita, che significa autodeterminazione…
“Nella Striscia di Gaza, come nei territori occupati, c’è una scolarizzazione alta, i servizi (se non venissero continuamente bombardati o messi in difficoltà) funzionano, hanno un mare pescoso, e i giacimenti di gas naturale nel Mediterraneo di fronte alla Striscia di Gaza rappresentano un interesse per Israele. Penso pertanto che anche la posizione geografica della Striscia di Gaza sia strategica per Israele.
Vorrei tornare sulla questione degli attacchi alle scuole e agli ospedali. Io non so cosa ci sia di vero nelle notizie che sono circolate sul fatto che una scuola dell’Unrwa è stata bombardata perché sono stati trovati dei depositi di razzi della resistenza, così come bombardano gli ospedali perché si presume siano luoghi utilizzati dai resistenti. Faccio solo un esempio: durante la nostra resistenza nelle chiese trovavano riparo i partigiani e trovavano anche collocazione i dispositivi che potevano servire alla lotta. Quindi, anche questa condanna del fatto che in una scuola si sarebbero trovati dei razzi è grottesca. Può essere opportuno o meno, ma non sta a noi dirlo: quando c’è una resistenza, qualsiasi azione venga messa in campo è legittima. Poi si gira il discorso e si dice che le armi dentro la scuola Unrwa causano le morti dei civili. Non penso si possa discutere in questi termini. Resistere vuol dire anche utilizzare determinati spazi, ma non perché vogliamo che i civili vengano colpiti, assolutamente no, bensì perché fa parte dei percorsi che all’interno di una resistenza, armata e non armata, ci sono come dato di fatto.”
Anche questa precisazione è importante, perché in Italia molti, anche in ambiti a noi vicini, hanno utilizzato esattamente questo tipo di discorsi per sostenere che in Palestina vengono tenuti in ostaggio i civili…
“Chi fa questi discorsi ha già calpestato e sotterrato la resistenza italiana. È lo stesso discorso di tutti quei pacifisti della sinistra che vengono qui, strizzano l’occhio al popolo palestinese e contemporaneamente vanno a visitare in Israele la casa colpita dal rocket dei resistenti. Non ci siamo proprio, queste cose non fanno capire cosa sta succedendo. La morte di un palestinese non è uguale alla morte di un israeliano, sono morti per due ragioni diverse e nessuno ha il diritto di metterle sullo stesso piatto della bilancia. Le ragioni e le diversità della loro morte restano tali. Poi sul piano personale ed emotivo ognuno può stringere la mano a chi vuole, ma quello è un percorso personale; le ragioni che li ha visti nemici non si possono mescolare. In Italia il tentativo di mettere sullo stesso piano i partigiani morti e i morti della Repubblica di Salò è da combattere; qui si vorrebbe fare la stessa cosa, mettere sullo stesso piano il morto palestinese e il morto israeliano. No, il morto palestinese è stato criminalmente assassinato, il morto israeliano è una risposta del popolo palestinese a un’aggressione. Su questo terreno non dobbiamo aver paura di dire come stanno le cose. Non si tratta di essere contro il popolo ebraico in quanto tale, non è assolutamente così, semplicemente stiamo sostenendo le ragioni della lotta contro una cultura sionista di colonizzazione.
Vorrei aggiungere un’altra cosa. Avete presente il terremoto dell’Aquila? Grande distruzione e subito è iniziato il business della ricostruzione e lo sperpero di denaro. In Palestina avviene la stessa cosa attraverso gli interventi della cooperazione internazionale. Sono 12 anni che vengo in Palestina e posso testimoniare che ogni volta c’era una fognatura e un pozzo dell’acqua bombardati, una centrale elettrica e una scuola distrutti, ecc.: così si crea il servizio sociale e si mantiene lo stato delle cose, si bombarda, si ammazzano civili, si ricostruisce, si riprende a bombardare e avanti così. Gli interventi di cooperazione internazionale, peraltro, sono fatti con denaro pubblico, anche a livello europeo bisogna iniziare ad aprire un confronto serrato. L’Italia è già arrivata con 350.000 euro di materiali di prima necessità, poi ci metteranno un altro milione di euro, ma per ricostruire che cosa? Strade che sono state scavate dai caterpillar mentre entravano nella Striscia di Gaza? O si viene a ricostruire la scuola Unrwa bombardata, o la centrale elettrica aspettando che venga di nuovo bombardata? Bisogna iniziare a dire che anche la cooperazione internazionale è un benefit per qualcuno, perché qui dentro c’è il business di chi ricostruirà e ha precisi interessi. Bisogna iniziare a dire che trattandosi di denaro pubblico, noi vogliamo poter partecipare alle decisioni in merito all’intervento di cooperazione internazionale e contemporaneamente un percorso politico risolutivo per l’autodeterminazione del popolo palestinese. Queste devono essere cose chiare, è inutile ricostruire una scuola per distruggerla di nuovo dopo tre mesi. Il governo Renzi porta soldi in Palestina per aiuti umanitari, come li chiamano loro, e contemporaneamente vendono armi ed a Israele? Rientra anche questa iniziativa nell’aiuto umanitario? Le politiche economiche europee sulla Palestina saranno uno dei fattori che determinerà la prosecuzione dell’occupazione. Bisogna iniziare a sostenere che Israele deve pagare la ricostruzione, come indicato dal diritto internazionale: lo Stato occupante deve provvedere ai bisogni della popolazione sotto occupazione. Che sia Israele a ricostruire scuole, ospedali, case, infrastrutture.”
C’è a tuo avviso qualcosa che si muove nella società israeliana?
“Guardo con simpatia quando un israeliano scende in piazza per la Palestina, però pongo alcune questioni. Innanzitutto, devono spiegare perché a 18 anni i giovani sono obbligati ad abbandonare la scuola per fare il servizio militare obbligatorio, e questo già la dice lunga sul tipo di politiche che Israele sta facendo. Se c’è una parte della società civile che è contraria alle aggressioni contro i palestinesi, dovrebbe iniziare a modificare questa condizione. C’è un’altra questione che mi fa sorridere: ho conosciuto dei refusnik più di dieci anni fa; oggi non ci sono più, spacciano per refusnik quelli che sono obiettori di coscienza, invitati in Italia tra l’altro anche da qualche associazione di sinistra, portati quali rappresentanti di giovani israeliani pro-Palestina. Ilrefusnik è colui che si è rifiutato di andare a bombardare la popolazione di Gaza, ma che non rifiuta l’uso delle armi; l’obiettore di coscienza, invece, è colui che rifiuta l’uso delle armi, a prescindere, perché rifiuta di obbedire a un comando in contrasto con i principi e le convinzioni personali. Sembra che ci sia una crescita degli obiettori di coscienza, magari è così, ma è un aspetto della società civile israeliana, dal punto di vista della causa palestinese non ci riguarda. Questo esempio serve per far capire come ci sia una rappresentazione molto confusa della società israeliana, qualcuno scende in piazza ma hanno votato un governo colonialista, continuano ad andare sotto le armi e chi non ci va come obiettore di coscienza viene spacciato, senza ragione, come pro-palestinese.
In Italia la sinistra si sta parlando addosso: c’è chi idealizza la Palestina, chi dice quanto sono bravi i palestinesi, chi discute se la resistenza deve essere armata oppure no, ma poi non stiamo facendo nulla, anche dal punto di vista della costruzione di rapporti politici. In questo momento il popolo palestinese sta dimostrando grande dignità e volontà di resistere. La dignità la misuri nel momento in cui sopporti di avere perso la casa, gli affetti e non hai più un luogo dove andare, ma nonostante ciò resisti con straordinaria determinazione.”