Dalla volontaria di Gazzella a Gaza – Giugno-Luglio 2015
La striscia di Gaza a quasi un anno dall’aggressione israeliana “margine protettivo” è in lentissima ripresa. Sono evidenti ovunque distruzione, macerie: una ricostruzione senza progettualità e priorità ostacolata dalle restrizioni israeliane sull’importazione dei materiali. Tuttavia, le ONG che operano da anni nella cooperazione stanno intervenendo con progetti per il recupero delle macerie delle case e il riutilizzo delle stesse per ricavarne mattoni, fondi stradali, tegole e lastre.
Quella della ricostruzione è certamente una speranza e anche un’opportunità di lavoro. Tuttavia questi progetti non prendono in considerazione alcuni fatti che con fatica si sta cercando di far emergere e denunciare: la striscia di Gaza è contaminata.
Questa affermazione si basa su esperienza diretta sui risultati ottenuti dalle analisi di laboratorio dell’Università la Sapienza di Roma, su campioni di terra di crateri originati in seguito alle esplosioni di bombe durante gli attacchi dell’operazione “summer rains” 2006 e a seguire su campioni di terra da altri crateri originati da bombardamenti durante l’aggressione “cast lead” nel 2009; e ancora su polvere prelevata dal guscio di una bomba al fosforo sganciata contro l’ospedale Al Wafa nel 2009; su 87 campioni di terra prelevati in altrettante diverse località della striscia di Gaza nel 2010; su 95 campioni di capelli raccolti per la maggior parte tra giovani e ragazzi una prima volta nel dicembre 2009 e successivamente dicembre 2010; su 58 campioni di acqua provenienti da pozzi municipali distribuiti lungo la striscia di Gaza. Le analisi rilevano presenza di concentrazioni anomale di elementi tossici–cancerogeni quali tungsteno, mercurio, molibdeno, cadmio, cobalto, vanadio, alluminio, uranio, stagno, zinco e cromo. Se consideriamo il fatto che la popolazione della striscia di Gaza vive da anni in condizioni precarie, in aree distrutte dai bombardamenti, sempre a contatto con macerie, materiale bellico inesploso, è quindi evidente che è continuamente esposta al rischio di venire a contatto con sostanze velenose di cui sopra, sia per via cutanea, respiratoria, ma anche attraverso gli alimenti (le produzioni agricole). Le macerie dovrebbero quindi essere rimosse e trattate opportunamente e non “riciclate – recuperate”.
Il ritorno tra le macerie! Durante l’aggressione israeliana della scorsa estate circa 200.000 palestinesi avevano trovato una sistemazione in alcune scuole messe a disposizione dall’Unrwa, perché le loro case erano state gravemente danneggiate o distrutte. Ho incontrato Shadha che con la famiglia si era rifugiata nella scuola Unrwa di Beit Hanun. Il padre riferisce che ha dovuto lasciare, 15 giorni fa, la scuola Unrwa G1029 di Beit Hanun, e con lui circa 200 famiglie rifugiate. Racconta che negli ultimi cinque giorni passati nella scuola non veniva più distribuita la razione giornaliera di cibo e questo, a suo dire, per fare comprendere alla gente che se ne doveva andare e non c’era più assistenza. Prima di lasciare la scuola sono stati distribuiti sussidi economici, il padre di Shadha ha ricevuto 500 dollari. Adesso Shadha vive, con i genitori e 7 fratelli in tenera età di cui uno disabile, in una baracca in mezzo alle macerie della sua casa. Probabilmente tanti altri sfollati della scuola Unrwa di Beit Hanun hanno seguito questo destino, lo stesso che toccherà alle famiglie, circa 20.000, che avevano trovato rifugio lo scorso agosto nelle 19 scuole e che adesso l’Unrwa sta svuotando.
Macerie su macerie. A Gaza nel 2009, alla fine dell’aggressione “piombio fuso”, la Early Recovery Mission inviata dall’ONU aveva già prodotto il rapporto “Gaza Early Recovery Radip Needs Assessment” che sosteneva la necessità di un piano nazionale Palestinese per il recupero di Gaza. L’indagine dell’UNEP aveva il compito di indicare misure concrete per il risanamento ambientale post-conflitto. Infatti dalle investigazioni si era evidenziato che l’aggressione “Piombo fuso” aveva creato grandi quantità di rifiuti di demolizioni spesso contaminati da materiali pericolosi. Un rapporto certamente datato, ma sempre di attualità. Nel frattempo altre due pesanti aggressioni contro la popolazione, l’operazione “colonne di nuvole” novembre 2012 e “margine protettivo” luglio-agosto 2014, hanno aggravato la condizione di vita dei Palestinesi. Nessun piano di risanamento è mai stato avviato, sebbene dopo ogni aggressione israeliana i donatori avessero promesso miliardi di dollari. Con le attuali restrizioni del governo israeliano ci vorranno più di 20 anni per costruire case, scuole, strutture sanitarie, fabbriche e infrastrutture idriche, elettriche e igienico-sanitarie, che sono andate distrutte o gravemente danneggiate.
Interrompere il business della distruzione-ricostruzione permanente è possibile se c’è la volontà di porre fine ai crimini di Israele contro il popolo palestinese e alla sua terra. Lo spirito di diversi donatori e di Ong dice di voler andare in tal senso; è allora necessario che il proclama delle buone intenzioni sia attuato mettendo in campo azioni concrete iniziando a contrastare le politiche di Israele che oggi sono anche quelle di impedire l’entrata dei materiali per la ricostruzione. Pensare di ricostruire così come si sta procedendo costituisce un rischio futuro per la salute della popolazione e tra l’altro va in contrasto con i progetti fatti e/o in corso di ONG attive sul territorio della striscia di Gaza in campo di prevenzione sulla salute.
Ai danni materiali non possiamo non aggiungere i danni alla salute; per questo l’urgente necessità di interventi condivisi tra il Governo locale e le ONG per dare avvio a una ricostruzione sostenibile a Gaza.
La cooperazione e gli aiuti non possono essere da stampella alle politiche “del mantenimento dello state delle cose”!
G. Brattini – Gazzella Onlus
22.6.2015