Relazione del viaggio di Gazzella a Gaza – marzo-aprile 2018

Pubblicato il 29 giugno 2018 da Gazzella
 

La visita nella striscia di Gaza, dal 8 marzo al 15 aprile scorso, è stata impegnativa e piena di situazioni intense. Le prime settimane sono state dedicate alla visita dei bambini in adozione e seguiti da tre dei nostri partner: Palestinian Medical Relief, Hanan ed Emaar.

Come noto l’assedio e le chiusure dei valichi comportano la totale dipendenza dei palestinesi all’assistenza “umanitaria”. La maggior parte delle famiglie dei nostri bambini vive con i contributi e il sostegno di ong locali caritatevoli, ong internazionali e dell’Unrwa. La decisione degli Usa di ritirarsi dall’Unesco è stata seguita dall’annuncio del presidente americano di interrompere gli aiuti finanziari all’ organizzazione ONU per il soccorso dei palestinesi, Unrwa.Sono cinque milioni i profughi palestinesi che vivono tra la striscia di Gaza (il 70% dei palestinesi presenti nella striscia sono profughi), Cisgiordania, Libano, Siria e Giordania. Il taglio alle risorse destinate alle attività dell’Unrwa si è già fatta sentire a Gaza, come mi raccontano i genitori dei bambini che incontro: diminuiti del 30% gli aiuti alimentari con conseguente riduzione delle quantità di generi assegnati ogni tre mesi, crollo dei servizi a favore dei minori e dell’assistenza e sostegno ai disabili, taglio del 25% dei kit sanitari, riduzione degli interventi a favore della famiglie che sono rimaste senza abitazione dopo l’attacco di “margine protettivo” del 2014. Questi alcuni degli effetti immediati, ma sarebbe un’altra catastrofe, Nakba, se si concretizzasse la “chiusura” dell’Unrwa per afferire all’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, I profughi palestinesi verrebbero equiparati a tutti gli altri rifugiati e verrebbe così meno il diritto di ritorno per i palestinesi, riconosciuto dall’Assemblea generale dell’Onu con la risoluzione 194 del 1948.

Per quanto brevi gli incontri con le famiglie e i bambini, sono sempre molto intensi e si percepisce che la loro vita è solo sopravvivenza, ma con dignità. Nella famiglie, sempre numerose, la disoccupazione è alta; chi è fortunato fa lavori saltuari come autista, venditore di qualsiasi cosa, fino a raccogliere ferro e macerie per mettere insieme a fine giornata qualche Nis. Tanti raccontano che il mancato pagamento di debiti, fatti per mandare avanti la famiglia, costringe a vendere l’arredo o a ipotecare la casa. Anche se sul mercato si propongono grossi sconti per promuovere i prodotti e incentivare gli acquisti, la maggior parte dei palestinesi di Gaza non può comunque permettersi di comprare nulla. Intanto a Gaza si moltiplicano i mercati dell’usato dove si possono acquistare vestiti, scarpe, borse, biancheria varia, tutta merce proveniente da Israele. Per far fronte alla mancanza di lavoro, le “libere associazioni” a Gaza nascono come funghi, se ne contano più di un migliaio, alla ricerca di sponsor per progetti occasionali e magari di scarsa qualità. Dopo aver trascorso più di un mese a Gaza non saprei dire a quale ora e per quante ore, 2 o 4, viene erogata l’elettricità. Posso però dire che a Gaza la popolazione organizza la quotidianità improvvisando, rimodulando, inventando. Una quotidianità vissuta di corsa senza mai godersi il momento di preparare una cena, fare la doccia, scrivere al computer, parlare via whatsapp. All’improvviso torni al buio e si interrompe la comunicazione, la vita.In tanti si dicono delusi delle politiche dell’Autorità nazionale palestinese, ma anche della politica internazionale che preferisce continuare a dare assistenza senza affrontare la situazione palestinese. Si dicono preoccupati per la decisione degli USA di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e lo spostamento dell’ambasciata, perché vedono sfumare il diritto allo Stato palestinese. La sensazione che resta dopo gli incontri è che c’è tanta amarezza, ma non rassegnazione e tanta voglia di lottare.

Nel corso della visita a Gaza è continuata l’attività di monitoraggio degli ospedali pubblici, con particolare attenzione allo Shifa Hospital. Vale la pena ricordare che dal 2013 il 56% dei dipendenti del ministero della salute di Gaza, pari a 5.238 persone, ricevono il 40%-50% del loro salario e gli addetti alle pulizie degli ospedali da più di 6 mesi non ricevono il salario. Molti di questi lavoratori hanno abbandonato il lavoro con le immaginabili conseguenze, costringendo il personale medico e paramedico a fare le pulizie. L’assedio israeliano attanaglia la popolazione, impedisce l’arrivo di beni di prima necessità e il libero movimento e il sistema sanitario di Gaza è al collasso. Il ministero della salute di Gaza ha dichiarato il deficit del 45% per 230 tipi di medicine, del 28% per 236 materiali sanitari monouso e del 60% per 383 materiali monouso di laboratorio. Situazione disastrosa anche per le apparecchiature necessarie alla prevenzione, 35 di queste sono mal funzionanti o fuori uso (raggi X e il pronto soccorso allo Shifa Hospital, il tomografo compiuterizzato al Naser Hospital di Khan Younis, ecc.). Gazzella, con i fondi raccolti a favore dello Shifa Hospital ha acquistato nelle scorse settimane due CTG, cardiotografi, per monitorare il battito fetale e le contrazioni uterine durante il parto. Le attrezzature sono state destinate al dipartimento maternità dello Shifa Hospital. (nel sito di Gazzella si può leggere il report riferito al progetto). Dai dati forniti dal ministero della salute risulta che, a causa delle chiusure dei valichi di Rafah e Erez, il 52% dei malati non ha potuto ricevere cure e trattamenti medici all’estero.

Il 30 marzo ha avuto inizio nella striscia di Gaza la manifestazione della “grande marcia per il ritorno”, sostenuta da tutti i partiti palestinesi, dalle ONG palestinesi e dalla società civile. Le diverse realtà politiche, culturali e religiose si sono unite contro l’assedio e rivendicando il diritto al ritorno. Tutti i venerdì fino al 16 maggio, la popolazione di Gaza è andata a dimostrare vicino alla barriera di separazione, in cinque diversi punti di concentramento. Intere famiglie hanno trascorso le giornate nelle tendopoli allestite a circa 700 metri dal border: bambini che facevano varie attività, giochi, lancio di aquiloni; uomini, donne che discutevano, si confrontavano o pregavano. Tanti altri si spingevano fino ai reticolati di fronte ai soldati israeliani a dimostrare la loro esistenza, la loro determinazione nel rivendicare il diritto al ritorno, ad avere uno stato. Una protesta civile di tanti giovani che nella loro breve vita hanno già vissuto 4 aggressioni israeliane, 2006, 2008, 2012, 2014, conosciuto morte e distruzione; che non hanno mai lasciato la striscia di Gaza assediata da 11 anni; che vivono di aiuti umanitari e caritatevoli; che se vogliono elettricità devono avere un generatore oppure restare al buio; che ammalarsi vuol dire non potersi curare, morire; che in famiglia hanno certamente un martire e un disabile a causa degli attacchi israeliani; che è negata la possibilità di studiare e di avere un lavoro. I palestinesi sanno che marciare verso la recinzione di filo spinato che separa la striscia di Gaza è una sfida impossibile, ma degna di essere vissuta. La comunità internazionale non ha compreso la dignità di queste azioni accusando Hamas di aver mandato a morire la popolazione. Invece si trattava di migliaia di giovani, donne, uomini, famiglie, venditori di sigarette e di noccioline che arrivavano nei pressi della recinzione, si proteggevano con il fumo dei copertoni bruciati per impedire ai cecchini di colpirli, consapevoli che non avrebbero superato il filo spinato, ma dimostravano al mondo che erano vivi. L’esercito israeliano non ha risparmiato nessuno dei pacifici dimostranti: proiettili, lanci molteplici con i droni di gas lacrimogeni su chi si avvicinava alla recinzione e sulle tendopoli.

Lasciando la striscia di Gaza, il 15 aprile, avevo la consapevolezza che ci sarebbero stati altri venerdì di tensione e difficili. Durante le manifestazioni ho toccato con mano la violenza dell’esercito israeliano, l’uso di gas lacrimogeni che causavano convulsioni, proiettili esplosivi, utilizzo di armi vietate. Ho vissuto le difficoltà estreme nelle quali hanno operato il personale medico e paramedico, senza attrezzatura adeguata, maschere antigas, sufficienti materiali monouso; instancabili nel raccogliere i feriti caricarli sulle ambulanze, anche più di un ferito, e via di corsa alle tendopoli sanitarie allestite a circa 2 km dalla recinzione, per una prima valutazione, cura e poi successivo trasferimento negli ospedali.

La scelta di Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele il 14 maggio è stata una provocazione. La costituzione dello Stato ebraico è stata infatti proclamata la sera del 14 maggio 1948 a Tel Aviv. Un regalo al progetto sionista che attraverso la colonizzazione prima, e l’esclusione poi ha quale obiettivo la cancellazione del popolo palestinese. Il 15 maggio 1948, 70 anni fa, è ricordato come il giorno della nakba per il popolo palestinese, una catastrofe che ancora continua. Mentre a Gerusalemme i sionisti festeggiavano, le pacifiche manifestazioni vicino alla rete di separazione della striscia di Gaza finivano in un mare di sangue: l’esercito israeliano ha ucciso nella giornata del 14 maggio, 62 palestinesi tra cui 8 bambini. La più giovane delle vittime, Leila, aveva 8 mesi. 2.768 sono stati i feriti. Il ministero della salute di Gaza ha comunicato che dall’inizio della pacifica dimostrazione della “grande marcia per il ritorno” il 30 marzo e fino al 16 maggio, le vittime sono state 112 di cui 13 erano bambini e i feriti da gas lacrimogeni, pallottole e artiglieria sono stati 13.190 di cui 2.096 bambini. Nessun ferito o vittima tra i soldati israeliani! Anche le ambulanze e il personale paramedico e volontario sono stati colpiti da gas lacrimogeni e pallottole; si contano tra gli operatori sanitari una vittima, 169 feriti e 24 ambulanze danneggiate.

L’apparato sanitario pubblico con i suoi 13 ospedali, 2.000 posti letto, durante tutto il periodo delle iniziative della “marcia per il diritto al ritorno” ha lavorato ininterrottamente e in condizioni impossibili. Per far fronte all’emergenza tutti gli interventi chirurgici programmati sono stati sospesi. Raccogliendo le richieste di aiuto del direttore generale dello Shifa Hospital, durante la permanenza a Gaza, grazie al sostegno dell’Associazione “Fonti di pace” e la cooperativa “Radio popolare Verona” che hanno messo a disposizione contributi per 8.000 euro, è stato possibile acquistare in loco farmaci di estrema necessità e di cui l’ospedale era in carenza quali antibiotici ad ampio spettro, anestetici, disinfettanti e anticoagulanti. Una goccia in un mare di bisogno, ma di grande utilità, soprattutto un segnale di comprensione dei bisogni della popolazione di Gaza. Gli aiuti sanitari promessi dall’ANP (autorità nazionale palestinese) per sopperire alle emergenze tardavano infatti ad arrivare a causa dell’assedio.

Gaza ci guarda, ringrazia per il continuo sostegno, ma ci chiede politiche concrete per togliere l’assedio, per verificare l’operato dell’esercito israeliano e riconoscere i diritti inalienabili all’autodeterminazione e al ritorno, perché è chiaro che a Gaza la resistenza continua.

Giuditta, 22.5.2018

Foto e video fatte durante le manifestazioni.

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