Dalla volontaria di Gazzella a Gaza
Arrivo nella Striscia di Gaza attraversando Erez, controllo israeliano e Beit Hanun, controllo dell’Autorità Nazionale Palestinese (A.N.P.) e di Hamas. Un piccolo autobus, novità, mi trasporta dal checkpoint di Erez a Beit Hanun, costo 3 Nis (50 centesimi), risparmiandomi più di un chilometro a piedi con bagagli.
Il volto di Gaza si sta lentamente trasformando: nuove abitazioni, altre ricostruite, nuovi edifici e negozi in particolare sul lungomare. Realtà che contrastano con tanta povertà e mancanza di servizi pubblici.
I nostri bambini. A Gaza l’80% della popolazione vive o meglio sopravvive con gli aiuti umanitari: ONG internazionali, associazioni caritatevoli locali, Unrwa.La quotidianità dei bambini e delle loro famiglie non è migliorata rispetto alla mia visita dello scorso mese di aprile. Durante gli incontri raccontano che gli aiuti in generi alimentari sono diminuiti e gli aiuti economici dei servizi sociali del Governo di Ramallah e di Gaza sono stati in parte ridotti. Con le poche risorse economiche a disposizione, le famiglie danno la precedenza all’acquisto di generi alimentari; l’abbigliamento molto spesso è di seconda mano e al mercato di Saha le bancarelle dell’usato sono molto frequentate. Scarpe, vestiti, borse e tanto altro, tutto rigorosamente proveniete da Israele. Raccontava il padre di un bambino nel progetto Gazzella di essere stato messo in carcere per tre mesi per il mancato pagamento dell’affitto. Durante la carcerazione la famiglia si era trasferita da parenti . Dopo l’uscita dal carcere ha preso in affitto un altro appartamento pur nella consapevolezza che non ha un lavoro e non potrà pagare. Con aria rassegnata riferiva che probabilmente sarebbe tornato in prigione.
I bambini e la scuola. Tra le informazioni che cerco di assumere quando incontro i bambini è se continuano ad andare a scuola. Purtroppo l’abbandono della scuola da parte dei ragazzi è in forte aumento: non si possono mantenere agli studi o non c’è la volontà e l’interesse a continuare . Uno studio realizzato dall’ Unicef Palestina e dall’Istituto di Statistica dell’Unesco riporta che quasi tutti i bambini fra i 6 e i 9 anni frequentano la scuola, ma che tra i 14 e 15 anni circa il 25% dei ragazzi e il 7% delle ragazze abbandonano gli studi. Il rapporto sottolinea che in questa fascia di età non frequenta la scuola in Cisgiordania il 18,3% e nella Striscia di Gaza il 14,7%. A Gaza nel 2017 oltre 29.000 bambini hanno interrotto il loro percorso scolastico. Le classi a Gaza sono composte con una media di 37 alunni e circa il 90% dei bambini frequentano scuole organizzate su due turni. I genitori riferiscono che l’abbandono della scuola è dovuto spesso a scarso interesse, ma soprattutto per disagio/stress psicologico. Andare a scuola a Gaza significa anche mettere a rischio la propria vita. Infatti i bombardamenti mirati contro case e autovetture non risparmiano chi si trova nelle vicinanze. I bambini ne sono consapevoli e la scuola non è vissuta come un luogo sicuro. Il fatto che Israele sia impunito anche quando attacca le scuole porta la convinzione che non c’è nessun posto sicuro a Gaza. Durante gli incontri cerco di comunicare l’importanza dello studio non solo per una crescita intellettuale, ma per sviluppare anche capacità di apprendimento, analisi e spirito critico. Sono elementi che potranno aiutare a migliorare il percorso della vita e a rendere consapevoli delle scelte.
Il ruolo dell’Unrwa. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso dei rifugiati palestinesi sostiene oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi che vivono in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di Gaza, garantendo i servizi all’istruzione, all’assistenza sanitaria, ai servizi sociali e agli aiuti di emergenza. Nel 2015 i rifugiati palestinesi registrati dall’UNRWA erano 5.149.742 di cui 1.276.929 vivono nella Striscia di Gaza, 774.167 in Cisgiordania, 1.276.929 in Giordania, 528.616 in Siria e 452.669 in Libano. Il governo americano con 368 milioni di dollari (dato del 2016), copriva circa un terzo di tutte le spese delle attività dell’Unrwa in Medio Oriente. Nei mesi scorsi Trump ha fatto venir meno il contributo all’Unrwa per 200 milioni di dollari. Il taglio economico ha determinato la diminuzione di erogazione dei servizi con dannose ricadute sulle famiglie. Circa 100 dipendenti dell’Unrwa dei 976 a Gaza, sono stati licenziati con ricadute negative sulle prestazioni dei servizi. I tagli economici all’Unrwa comportano come effetto immediato il peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi. Il taglio degli aiuti va letto come scelta politica dei governi Usa e Israele che contestano, all’Unrwa, il conteggio dei rifugiati palestinesi. Usa e Israele sostengono che sono da considerare rifugiati le persone fisiche cacciate nel 1948 e non i discendenti. In questa logica i rifugiati sarebbero già, in gran parte, naturalmente estinti. Secondo l’Unrwa, invece, hanno diritto allo status di “rifugiato palestinese” anche i discendenti dei rifugiati espulsi o scappati in seguito alla “nascita” dello stato di israele nel 1948. Di fatto la politica di USA e Israele è volta a cancellare il diritto al ritorno dei palestinesi nelle terre dalle quali sono stati cacciati e a cancellare l’orrore della Nakba. Le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno a Gaza sono una risposta anche contro queste politiche.
La Grande Marcia del Ritorno (GMR). Durante la mia permanenza a Gaza, settembre-ottobre, sono continuate le manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno nelle giornate di venerdì e lunedì. Manifestazioni organizzate dal Comitato promotore composto da militanti di Hamas, FPLP, Almubadara, Jihad islamica e attivisti della società civile. I palestinesi che protestano al confine hanno poco da perdere rispetto alla situazione in cui vivono. Negli ultimi undici anni Israele ha massacrato la popolazione, 4 attacchi armati con migliaia di morti e feriti. Le continue aggressioni militari rendono impossibile una ripresa della vita. La popolazione di Gaza è sottoposta ad una continua tortura/sofferenza psicologica collettiva, una guerra psicologica che vorrebbe sbriciolare la dignità e la volontà dei palestinesi di esistere.Morte, distruzione, feriti con invalidità permanenti, malati cronici che non possono essere curati: una lenta agonia per un popolo che rivendica il diritto alla propria terra e all’autodeterminazione. Dal 30 marzo scorso si conta una sola vittima israeliana, mentre abbiamo visto le immagini di bambini, donne, uomini, personale paramedico e giornalisti palestinesi massacrati dai cecchini israeliani. L’esercito israeliano ha assassinato 219 palestinesi di cui 37 erano ragazzi con meno di 18 anni. Sono 22.976 i feriti di cui 90 con invalidità permanenti. C’è chi fa propaganda dicendo che i dimostranti sono stipendiati da Hamas o che vengono pagati per andare a protestare al confine. Tante famiglie arrivano nei luoghi di concentramento con mezzi propri e con bus organizzati dalle forze politiche che hanno promosso la Grande Marcia del Ritorno. Un modo per aggregare e facilitare chi vuole manifestare. Alle manifestazioni, i palestinesi arrivano “armati” di bandiere e aquiloni incendiari, che trasportati dal vento dovrebbero arrivare nella campagna aldilà della rete di separazione. Tutto questo contro le armi sofisticate dell’esercito israeliano, proiettili esplosivi e gas lacrimogeni che causano attacchi epilettici e convulsioni.
Diciamo come stanno le cose: una quotidianità disumana ti porta a protestare fino a rischiare di morire, perché un cosa è certa: chi va a manifestare sa che troverà i cecchini e i soldati di un esercito tra i più potenti al mondo. Durante la permanenza a Gaza sono continuati i bombardamenti contro le postazioni della resistenza e i droni, “zannana” come li chiamano a Gaza, sulle nostre teste h24.
Comitato Internazionale Croce Rossa a Gaza. Èstato ripetutamente denunciato che, nel corso delle manifestazioni della GMR, il personale paramedico, le ambulanze non potevano operare in sicurezza secondo il diritto internazionale. Nelle settimane scorse a Gaza City, di fronte alla sede del Comitato Internazionale della Croce Rossa, si sono date appuntamento le ONG sanitarie Palestinesi che durante le manifestazioni sono operative sul territorio. Hanno denunciato i continui attacchi armati da parte dell’esercito israeliano al personale medico e paramedico e alle strutture di soccorso. Dal 30 marzo si contano 3 martiri tra il personale paramedico, 390 feriti e 75 ambulanze danneggiate con lacrimogeni e proiettili. Le ONG hanno consegnato alla direzione del C.I.C.R. una nota nella quale si chiede il rispetto del Diritto Umanitario Internazionale, della Convenzione di Ginevra e dei Protocolli aggiuntivi del 1977 e 2005, rivendicando il diritto alla protezione del personale di soccorso, dei materiali, delle strutture e l’accesso ai luoghi dove è necessario l’intervento. Le ONG si sono appellate alla comunità internazionale per la protezione del popolo palestinese.
Intervento a favore delle donne in carcere. Durante la permanenza a Gaza ho incontrato l’Associazione per i diritti umani Al Dameer. Hanno illustrato la condizione e le necessita’ delle donne prigioniere in Gaza. Nella striscia c’è un solo carcere femminile che si trova nella città di Gaza, e cinque carceri per gli uomini in distretti diversi della striscia. Le donne detenute sono 54 e con loro ci sono 8 bambini. I bambini restano con le madri fino al compimento dei 2 anni e poi vengono affidati ai familiari. Gli uomini detenuti complessivamente sono 1.207. Le motivazioni della detenzione per le donne sono per diversi reati: violenza contro familiari o altre persone, prostituzione, o mancato pagamento di rate bancarie o altri tipi di prestiti. Non ci sono detenute per motivi politici. Le visite alle detenute è una volta alla settimana e gli incontri avvengono in uno spazio all’aperto. Durante l’incontro mi hanno consegnano una lista di farmaci di cui le detenute hanno bisogno in particolare antibiotici per adulti e bambini, antipiretici per i bambini, farmaci per la pressione e per il diabete, per la gastrite etc. Viene segnalata anche la necessità di abiti per l’estate e per l’inverno, scarpe, materassi e cuscini. A conclusione dell’incontro mi dicono che ritengono le donne detenute non criminali, ma vittime della società. Dopo l’incontro si è deciso di destinare una parte dei fondi a disposizione per la fornitura dei medicinali richiesti. L’acquisto è stato fatto presso un magazzino di Gaza e come al solito ho scelto, tra i famaci disponibili, quelli non provenienti da case farmaceutiche israeliane. Cosa non facile perchè Israele controlla le dogane di Gaza e ovviamente sono favorite le entrate di materiali di produzione israeliana!
Le prospettive, la voce di Hamas. Sul futuro è interessante l’intervista del leader di Hamas Yahia Sinwar, pubblicata il 5 ottobre scorso su La Repubblica e il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth. Per comprendere le prospettive riporto alcune significative dichiarazioni del leader di Hamas: “C’è una reale opportunità per il cambiamento. La guerra non è nel nostro interesse. Ma nella situazione attuale, escalation è inevitabile… e comunque, la verità è che una nuova guerra non è nell’interesse di nessuno. Di certo, non è nel nostro: chi ha voglia di fronteggiare una potenza nucleare con due fionde?… Per i figli a testa alta, sempre. Spero che, nonostante tutto, abbiano la forza di non cedere: fino al giorno in cui avranno libertà e indipendenza. Perché voglio che i nostri figli sognino di diventare medici non per curare i feriti, ma il cancro… Oslo ormai non esiste più. Credo sia l’unica cosa su cui concordiamo tutti, qui. Ma proprio tutti. Non è stato che una scusa per distrarre il mondo con dei negoziati infiniti, e intanto, costruire insediamenti ovunque e cancellare materialmente ogni possibilità di uno Stato palestinese. Sono passati 25 anni. E cosa abbiamo ottenuto? Niente. Ma poi, perché insistere sempre e solo su Oslo? Perché non parlare anche di quello che è venuto dopo? Come il “documento di unità nazionale”, per esempio, che si basa sul famoso “Documento dei prigionieri” del 2006, con cui abbiamo delineato quella che è oggi la nostra strategia comune, Hamas, Fatah, tutti: uno stato lungo i confini del 1967 con Gerusalemme capitale e con il diritto al ritorno dei rifugiati, ovviamente. Sono passati 12 anni. E continuate a chiederci: perché non accettate uno stato lungo i confini del 1967? Ho l’impressione che il problema non sia nostro”.
Dalle affermazioni del leader di Hamas emerge l’impegno per un cessate il fuoco in cambio della possibilità di progettare la rinascita economica che permetta alla popolazione di Gaza di uscire dall’assedio. Su questa base a Gaza continuano gli incontri tra tutte le forze politiche con i rappresentanti dell’Egitto e Qatar al fine di individuare un percorso condiviso che definisca, appunto, una tregua a lungo termine. Nell’intervista è ribadito il diritto al ritorno in uno stato Palestinese che comprenda Gaza e la Cisgiordania.
Le scelte di Israele camminano in altra direzione. L’intervista del leader di Hamas Y. Sinwar, viene rilasciata a pochi mesi, luglio scorso, dall’approvazione del parlamento israeliano della legge che definisce Israele “Stato-nazione del popolo ebraico”. Hanno votato a favore 62 deputati, contrari 55. Per i sostenitori della proposta, la legge pone una equivalenza tra i valori ebraici e quelli democratici; adotta il calendario ebraico come quello ufficiale dello Stato; la lingua araba viene definita “speciale”, rendendo l’ebraico la lingua nazionale “ufficiale”; gli insediamenti sono definiti uno sviluppo per l’interesse nazionale. È una legge che proclama primario il diritto religioso ebraico, superiore anche ai principi della democrazia. In sostanza leggi e sentenze si ispireranno ai valori ebraici, sarà sostenuta l’educazione ebraica, mentre i non ebrei, dovranno sviluppare autonomamente i propri valori e la propria cultura. È uno Stato che applica il differenzialismo etico e religioso, uno Stato che non è uguale per tutti i cittadini.
Hamas e A.N.P. ai ferri corti. Da cinque anni il governo di Hamas non è più in grado di pagare i salari ai propri dipendenti pubblici che percepiscono il 40% ogni due mesi e non ci sono risorse sufficienti per finanziare i servizi pubblici. Diverse le ragioni della crisi economica del governo di Gaza tra le quali la chiusura “forzata” dei tunnel, che con il commercio dalla Striscia all’Egitto portavano soldi al governo locale attraverso l’incasso delle tasse, e il blocco, nel 2017, degli aiuti economici che il Qatar versava a Gaza. Sul versante A.N.P. i trasferimenti per l’erogazione dei servizi pubblici nella Striscia sono diminuiti e i dipendenti pubblici di Ramallah da qualche mese percepiscono il 50% dello stipendio. Le difficolta economiche dell’A.N.P. sono da ricondurre al taglio, da parte di Israele, delle quote spettanti e derivanti dalle tasse, e dai tagli delle risorse economiche del governo americano. Inoltre lo scorso mese Abu Mazen ha annunciato l’intenzione di tagliare totalmente il salario dei dipendenti pubblici dell’ANP a Gaza e di non trasferire altre risorse finanziare per l’erogazione dei servizi. La ragione di tale decisione non è la mancanza di risorse, ma è tutta politica. È rimasta disattesa la richiesta di Abu Mazen a Hamas di avere il totale controllo della striscia di Gaza, con particolare riferimento alla sicurezza, punto sul quale Hamas non intende cedere. Non mancano le accuse tra Abu Mazen e Hamas: Il primo accusa Hamas di cercare un accordo con Israele sotto l’ombrello dell’intelligence egiziana. Il secondo replica che non c’è la volontà di arrivare alla “riconciliazione interna” e accusa l’A.N.P. di essersi chiamata fuori dalla resistenza popolare condotta a Gaza, concludendo che il blocco dei trasferimenti economici rende Abu Mazen complice delle politiche di assedio su Gaza.
Area Medioriente. Nel contesto “affare del secolo” non va sottovalutata la complessiva e delicata situazione del Medioriente. Israele e USA insistono per nuove sanzioni all’Iran; Israele chiede un intervento contro l’Iran accusandolo di avere materiale radioattivo e tecnologia nucleare di vario genere; la Russia ha creato in Siria un “ombrello” di controllo per impedire operazioni militari israeliane nei cieli siriani, nelle acque del Mediterraneo orientale, creando di fatto una cortina protettiva contro eventuali attacchi al Libano e Iran. Il Movimento Islamico di Resistenza Hamas da Gaza fa sapere che è contrario alle sanzioni richieste e imposte dagli Usa e Israele contro l’Iran e critica i Paesi Arabi, in particolare gli Emirati, che stringono “amicizia” con Israele. In questo scenario cosa sarà di Gaza?
Lascio la Striscia di Gaza portandomi dietro dolore e tristezza, ma con la consapevolezza che il nostro intervento è importante e riconosciuto. A Gaza solitamente mi sposto utilizzando mezzi che trovo per strada. Uno dei lavori a Gaza è utilizzare la propria auto come “taxi”. Uno spostamento dentro la città di Gaza costa da un minimo di 1 nis (20 centesimi circa) a un massimo di 3 nis, a seconda delle distanze. Un giorno salgo su una delle auto che trovo in Nasser Street, direzione Al Quds hospital. L’autista mi guarda con insistenza poi cerca di parlarmi in arabo, ma non capisco. Durante il tragitto sale una giovane donna che vedendo “l’internazionale” mi chiede in inglese da dove vengo. Il guidatore subito inizia a parlare con la donna la quale mi traduce: Mohammed, questo è il nome del nostro autista, mi conosce. La cosa è curiosa quindi chiedo di spiegarmi e vengo così a sapere che Mohammed è stato nel progetto Gazzella, 10 anni fa, perché ferito. Oggi ha 23 anni, è sposato e sta bene. Io non ricordo il caso, tanti bambini ho visitato in 15 anni, ma lui ricordava Gazzella!
g.b.
7 Novembre 2018
♦ Accordi di Oslo
Un accordo sancito il 20 agosto 1993, a conclusione di incontri segreti a Oslo, tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
Le parole di Edward Said nell’intervista dell’ottobre 1993 definirono l’accordo “uno strumento della resa palestinese, una Versailles palestinese”.