Di ritorno da Gaza, 8 dicembre 2022
Arrivo a Gaza di venerdì e il “border” è affollato di palestinesi che tonano a casa dopo la settimana di lavoro in Israele. Trasportano pesanti borse di plastica probabilmente contenenti cibo e qualche regalo per i figli. La maggior parte sono giovani. Salgo sul bus che dal controllo israeliano mi porta al controllo dell’Autorità Palestinese e dell’Autorità locale. I posti sono già occupati e alcune persone sono in piedi. Subito un giovane si alza e mi fa sedere.
Più del 60% delle persone di Gaza, abili al lavoro, è disoccupato e il salario minimo, come da indicazione dell’Autorità Palestinese, dovrebbe essere di Nis 1.880 circa 540 euro, anche se il salario medio mensile effettivo è di circa 200 euro.
In Israele si va per un lavoro non assicurato e senza diritti. Si accettano queste condizioni per sfamare le famiglie. Si dice che siano stati rilasciati circa 10.000 permessi di lavoro, come carpentiere, muratore o in agricoltura. Sia in uscita da Gaza che al rientro i lavoratori sono sottoposti a controlli individuali per la “sicurezza”.
La “concessione” da parte del governo israeliano di permessi di lavoro è il risultato della mediazione tra Egitto, Autorità di Gaza e Israele per allentare le pressioni economiche, ma non solo. Sebbene le ultime aggressioni israeliane, che hanno causato distruzione e morte, Israele non è riuscita a recidere le radici della resistenza che di fatto resta una minaccia. La raccolta di informazioni, secondo Israele, può avvenire anche attraverso gli interrogatori a cui vengono sottoposti nelle fasi di transito dei “border” i lavoratori palestinesi disperati. Questi anche involontariamente possono trasmettere informazioni o essere corrotti. Chi ha toccato con mano i controlli della “sicurezza israeliana” sa di cosa si parla. È quindi necessario, per tutti, fare attenzione a commenti o semplici chiacchierate.
Al mio arrivo a Gaza le strade sono ancora sommerse dalle pozzanghere delle piogge dei giorni precedenti, piogge che hanno provocato allagamenti di case e strade, specialmente nei campi profughi. La mancanza di adeguate infrastrutture fanno di Gaza un territorio fragile. Nei giorni successivi presento la richiesta di permesso di soggiorno e mi viene rilasciata una carta di residenza validità tre mesi, prima del Covid era di 6 mesi.
Nelle lunghe sere trascorse a Gaza senza elettricità e solo con una lampada, ho organizzato il lavoro: visite ai nostri bambini, monitoraggio delle attività delle dental Clinic nelle Primary Health Care di Shaty Camp e El burej dove grazie ai contributi dei sostenitori abbiamo acquistato le poltrone del dentista e altre attrezzature, monitoraggio-chiusura del progetto di riabilitazione a favore di bambini e adulti feriti o con disabilità finanziato nel 2021 dalla Chiesa Valdese con 8×1000 e avvio del nuovo progetto per il prossimo 1 gennaio.
Nel corso delle visite ai bambini adottati da Gazzella trovo situazioni di estrema povertà, famiglie che vivono in case fatiscenti che quando piove entra acqua e senza corrente elettrica.
L’acqua dai rubinetti resta “salata”, anche se alcune famiglie hanno installato serbatoi di acqua potabile sul tetto.
La corrente elettrica continua ad essere distribuita a fasce alterne di 6/8 ore. Alcune famiglie hanno messo luci led; nei palazzi di 13/16 piani con 4 famiglie per piano si può avere corrente H24 da generatori centralizzati. Quest’ultima soluzione è per poche famiglie perché costosa, 250 Nis al mese (circa 70 euro). In alcune case vedo accumulatori con batteria che si ricaricano con le ore di corrente, mentre ospedali e uffici pubblici hanno installato pannelli solari.
Le situazioni delle famiglie che ho incontrato, dove sono presenti mediamente 5 – 8 figli, sono molto misere e il padre o non ha lavoro o fa lavori saltuari. Mentre sono in corso le visite è periodo di raccolta delle olive. Mi raccontano che si lavora 6 ore al giorno per 15 Nis al giorno, circa 5 euro. Le famiglie hanno risentito dei tagli ai fondi dell’Unrwa e tante famiglie di profughi non hanno ricevuto aiuti in generi alimentari. L’Unrwa, agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, fornisce assistenza sanitaria, istruzione e aiuti alimentari e si è vista tagliare nei mesi scorsi i fondi da parte degli USA. L’amministrazione Biden ha annunciato di voler rinforzare le casse dell’Unrwa, ma condizionando l’aiuto ad un impegno dell’Autorità Palestinese a portare avanti una soluzione a due Stati!
Anche gli aiuti economici erogati da parte dei servizi sociali dell’Autorità Palestinese alle famiglie che vivono in situazione di estrema povertà, sono stati bloccati e quest’anno le famiglie hanno ricevuto una sola tranche di pagamento anziché quattro. L’Unione Europea infatti aveva congelato, per ragioni politiche, il programma di aiuti finanziari destinati all’Autorità Palestinese per pagare gli stipendi e le pensioni dei dipendenti pubblici della Cisgiordania e Gaza, sostenere gli ospedali e fornire aiuto alle famiglie vulnerabili. Vi era stata una forte pressione da parte di Israele affinché l’Unione Europea interrompesse l’aiuto finanziario. Israele sostiene che l’Europa accetta che l’Autorità Palestinese continui a premiare economicamente i “terroristi” ed a insegnare nelle scuole l’odio verso Israele e verso gli ebrei in quanto i libri di testo “contengono rappresentazioni emotivamente cariche della violenza israeliana che tendono a disumanizzare l’avversario israeliano” (da uno studio indipendente condotto dal Georg Eckert Institute).
La questione è decisamente diversa: gli aiuti finanziari Europei sono destinati anche a sostenere le famiglie vulnerabili dei martiri e dei prigionieri, e non terroristi, e il diritto all’istruzione prevede programmi di studio della narrativa palestinese.
Stare a Gaza in appartamento al buio in un silenzio assordante interrotto solo dai droni, “zannana” come li chiamano a Gaza per il rumore simile al ronzio della zanzara, è veramente angosciante. Ma per fortuna per me è per breve tempo!. Dell’ultimo attacco israeliano, tre giorni nello scorso mese di agosto, sono rimasti crateri e parti di edifici demoliti. Le macerie sono già rimosse e nelle strade i poster dei 49 martiri di cui 16 erano bambini e adolescenti.
Dall’inizio dell’assedio, Israele ha lanciato quattro attacchi a Gaza, 2008, 2012, 2014 e 2021, ma sui crimini commessi contro i civili ancora silenzio sebbene le molteplici iniziative di Associazioni per i Diritti Umani e altri che chiedono la condanna di Israele e sanzioni. Abbiamo assistito in questi anni alla lenta ed inarrestabile distruzione del tessuto sociale del popolo palestinese e l’assedio dal 2007 ha reso invivibile la striscia di Gaza.
Negli ospedali e nei distretti sanitari si rincorrono le priorità di intervento lasciando che il personale medico e paramedico, demotivato e frustrato con un salario al 60%, trovi risposte alle necessità di cure salvavita e di prevenzione. Israele continua a negare il diritto alla cura e si allunga la lista delle richieste di permessi per le cure in ospedali fuori dalla striscia id Gaza. I minori molto spesso si vedono negare l’autorizzazione al passaggio del valico di Erez poiché i genitori non ottengono il permesso per accompagnare i figli malati.
A Gaza si chiedono perché l’Europa è attenta e vicina alla popolazione ucraina con l’ invio di armi, sanzioni e condanne, mentre i crimini di Israele contro la popolazione palestinese non vengono perseguiti.
Durante la mia permanenza a Gaza, le aggressioni israeliane nei territori occupati sono state la quotidianità. In pochi giorni 11 martiri e più di 100 feriti, ma mentre scrivo il massacro di civili continua. Da Gaza grande solidarietà alla sofferenza dei fratelli aldilà dei muri e dei border.
Lascio la striscia di Gaza con la solita convinzione: hanno fatto di Gaza un laboratorio dove si sperimentano gli effetti sulla salute causati dai bombardamenti, dove si testa la capacità di resilienza della popolazione alle continue violenze. Con l’assedio Israele costringe la popolazione di Gaza a dipendere dagli aiuti internazionali, di cui i gazawi ne farebbero anche meno. Chiedono invece libertà di movimento e di scambi commerciali insomma il diritto all’autodeterminazione. È pensiero diffuso che la “questione” palestinese vada risolta e che né gli aiuti umanitari né gli interventi di cooperazione internazionale sono la soluzione, anzi sono diventati “pelosi” strumenti che alimentano lo stato delle cose.
G.
Dicembre 2022