Dalle volontarie di Gazzella a Gaza – 29 aprile 2018
Sabato. Un sabato tranquillo, poche macchine sulla strada dopo il venerdì del Ritorno. Le spiagge sono vuote, ieri erano piene di famiglie che variamente bivaccavano sui tavoli predisposti, uomini a cavallo lungo la spiaggia, ragazzini in acqua a giocare. Fa relativamente freddo, ma questo non è un ostacolo. E’ il sabato del villaggio dopo il venerdì.
Ieri con alcuni amici del Fronte siamo andate alla manifestazione al confine di Gaza City. Ce ne sono cinque in tutto il territorio di confine con Israele. Quello di Gaza sembra il più importante e numeroso insieme a quello di Khan Younis a sud. Secondo il nostro modo di contare direi che c’erano almeno 10mila persone. Di tutti i generi. Ad alcuni di voi manderò appena ho di nuovo la corrente, via we transfer, le foto. C’era di tutto, carretti, banchetti che vendevano vari generi alimentari (dai bicchieri di succo, alle pannocchie lesse, fragole… famiglie intere, bambini, donne, c’era un comizio urlato sotto una tenda, con almeno 500 persone sedute ad ascoltare, aquiloni nel cielo, leggeri (fa ridere pensare che possano portare bombe, sono di carta fina e tenuti con un filo sottile. Qualsiasi oggetto pesante li farebbe cadere) e poi più avanti il fumo, i lacrimogeni con le loro scie bianche in mezzo a densi nuvoloni di fumo nero di gomme bruciate. E una gioventù dai 12 ai 25 anni. Tutti in movimento. Urla, chiasso. In lontananza i carri blindati israeliani che scorrono al di là di un reticolato Alcune migliaia di ragazzi, Nessuna arma se non le mani e i loro corpi e poche pietre (la zona è sabbiosa).
Ci sono delle dune alte quanto una persona e mezzo dove si affollano in fila ragazzi e ragazze e curiosi come noi. Alcune di queste dune sono occupate dai media: un mucchio di operatori cinematografici (press) con i caschi e i giubbotti antiproiettile. Tra loro anche alcune giornaliste. I media non si vogliono perdere lo spettacolo, ma che diranno? Uno dei nostri accompagnatori, militante del fronte popolare, viene anche intervistato da una troupe televisiva. C’è bisogno che qualcuno spieghi. Nell’aria un vago odore di lacrimogeni ma anche dell’odore acre delle gomme bruciate. Io mi sono portata il foulard e copro naso e bocca. Sancia niente. E intanto fotografo. Cerco di testimoniare la situazione e il contesto. Le famiglie e i ragazzi.
Ad un certo punto un gruppo di ragazzi (ventenni ma anche meno) corre urlando grida di vittoria. Tirano una corda. Saranno un centinaio. Si capisce che qualcuno è riuscito ad agganciarla alla rete del confine una lunga corda e insieme sono riusciti a far così saltare il reticolato. Si sentono degli spari.
Quelli che vediamo corrono entusiasti e vittoriosi: ce l’hanno fatta! Altre grosse gomme (da camion) vengono gettate tra le fiamme, altro fumo. Protegge i numerosi ragazzi (direi molte centinaia e forse anche un migliaio) che sfidano i blindati israeliani. Con le grida si fanno coraggio. E’ un formicolio umano compatto. Alla fine di questo pomeriggio (le manifestazioni cominciano dopo la preghiera del venerdì e continuano fino a sera con un acme verso le 16.30-18.30). Noi siamo lì un po’ dopo le 16 e ci restiamo per un’oretta. Dopo la rottura della rete di divisione ci viene detto che è meglio allontanarsi, avvicinarsi alle famiglie che tranquillamente e in gran quantità riempiono le “retrovie”. Hanno i figli probabilmente in prima linea e li aspettano. Oppure semplicemente vogliono dire: ci siamo anche noi. Le famiglie dei rifugiati che vogliono tornare. Per troppe persone la vita a Gaza è troppo dura, c’è disoccupazione e disperazione. Poca speranza. Ma che possono fare? Solo dire al mondo che sono dimenticati. Che nessuno affronta il problema delle dure condizioni di Gaza. Nemmeno i politici di Ramallah, che hanno fatto timide dichiarazioni pur dopo 4 venerdì di proteste. La sera su Aljazeera
Ci avviamo fuori dall’area della manifestazione. Ci sono parecchie postazioni della Mezzaluna Rossa, con tende lungo i bordi della manifestazione. Aspettano i feriti che evidentemente ricevono una prima cura sul posto (non ci sarebbe abbastanza posto negli ospedali) mentre i più gravi vengono dirottati negli ospedali. Dal cuore della manifestazione arrivano scoppi e sirene delle autoambulanze. Sono i manifestanti che portano le barelle e gli infermieri li aspettano.
In macchina, al ritorno con Sancia ho una breve discussione, perché lei ritiene che queste manifestazioni servano per attirare l’attenzione internazionale su Gaza quando nessuno più ne parla e forse pochi sanno davvero quello che succede qui. Io osservo che se questo è vero è comunque troppo poco e si spegne come un fuoco di carta mentre gravemente manca una classe politica che sappia dirigere ed utilizzare queste manifestazioni per ottenere qualcosa. Per aprire tavoli di negoziazione, almeno per ottenere migliori condizioni per la popolazione. Per trasformare queste energie in progetti politici dentro e fuori. Quando noi in Italia si manifestava era per ottenere qualcosa. Qui chi e cosa chiede? Quali sono gli obiettivi? Loro manifestano in occasione dei 70 anni della Nakba e nascita di Israele. Quindi per il ritorno alle terre che oggi sono Israele. E’ un possibile obiettivo? Come? Come costruirlo? Mi chiedo quali possano essere gli obiettivi intermedi per arrivarci. E chi ci pensa
La vita qui è così dura. Disoccupazione endemica, poche o nulle prospettive per i giovani, crescita di uso di droghe di vario tipo (non è facile vivere con la disperazione) una stratificazione sociale visibile dalle macchine e dai palazzi, mancanza di acqua decente e di elettricità.
Questa volta scopriamo che c’è un’erogazione di 4 ore di corrente elettrica e dopo ben 16 ore senza. A novembre scorso, ci sembrava già molto grave, erano 4 ore e poi 12 senza. E allora non sarebbe utile provare a conquistare un orario diverso? Israele vende la corrente elettrica ad alto prezzo. Non sarebbe importante negoziare altri prezzi con Israele? Ieri ci spiegavano che la corrente elettrica viene per il Nord da Israele ed è appunto cara (più che in Israele); al sud arriva dall’Egitto e anche quella costa molto cara, al centro non ce la fanno con la corrente prodotta con il petrolio che si importa da Israele anche quello a caro prezzo.
E’ vero che la necessità crea l’ingegno. Tutti hanno ormai l’illuminazione a led e con lampadine a risparmio, tutti hanno batterie e in molti casi con un commutatore per ricaricare le batterie durante le ore di energia; sono poi molto aumentati i pannelli fotovoltaici che ricaricano le batterie, i palazzi ricchi hanno i generatori di energia, ma sono molto costosi. Molti uffici o appartamenti hanno i loro generatori. Ma non è vita. Ci sono giorni che la corrente elettrica a Gaza city viene erogata solo due ore o anche niente. In generale quindi illuminare e avere corrente per gli elettrodomestici costa moltissimo e molti poveri hanno eliminato i pochi elettrodomestici che avevano e vanno a luci a led con batterie improbabili. Sostanzialmente vivono al buio.
Altro problema la spazzatura. Ce n’è dovunque dovunque. Tutti gettano a terra cartine, bottiglie, plastica ecc. Servirebbe un piano di trasformazione, dando anche pochi soldi al giorno a chi non lavora per far pulire le spiagge, le strade. La speranza nasce anche dal fare, dal riprendersi dignità, dal guadagnare qualche soldo, dal non soccombere quando si vive in una situazione dove gli orizzonti si chiudono, dal mare e dalla terra. Resistere è rimanere umani. Molte donne qui fanno proprio questo. Ogni tanto penso che se Gaza fosse governata dalle donne sarebbe meglio, ci sarebbe più iniziativa trasformativa, pur in una situazione totalmente di merda.
Gli uomini si riservano le moschee e la politica, con poche donne cooptate, soprattutto nei partiti del Fronte (ce ne sono due, popolare democratico e non superano l’8%). Si ritorna alla mancanza di una vera e buona classe politica. Del resto di questi tempi è un po’ così dappertutto nel mondo.
Siamo a Gaza oramai da 5 giorni. Abbiamo lavorato con Aisha al progetto in corso, abbiamo visto 20 bambini nelle loro famiglie. Abbiamo toccato di nuovo con mano alcune situazioni (poche per fortuna) veramente miserabili e degradate (Beach camp e Jabalia camp) che abbiamo segnalato per un intervento, con famiglie numerose, figlie che hanno alle spalle matrimoni precoci e già divorziate, uomini che usano droga, situazioni di violenza sessuale familiare. Ma in generale le famiglie ci sono sembrate povere ma molto dignitose. C’è stato un grosso intervento edilizio dal 2014, con soldi provenienti dai paesi arabi e dall’UNRWA. Molte famiglie che 4 anni fa avevamo visitato in alloggi di fortuna, alcuni presi in affitto altri sistemati in stanze di case di parenti, oggi hanno una casa, si vede che ci hanno investito, e questo dà più serenità ai figli. Quasi sempre le famiglie sono aumentate, sono nati altri figli (1 e spesso 2). I fondi delle adozioni che Gazzella offre alle famiglie con bambini feriti (in molti casi altri sono morti) sono importanti per il sostentamento, anche se ai minimi termini, delle famiglie che magari campano con questi soldi e con l’aiuto dei servizi sociali (borse alimentari o assegno periodico). I mariti sono quasi sempre disoccupati o trovano saltuariamente dei lavoretti. Di fatto qui a Gaza la discriminante è se hai un lavoro (anche minimo) o se non ce l’hai. Campi se fai anche solo il portiere, l’edile, il venditore di verdure o di merci varie per terra per strada. Insomma qui l’arte necessaria è arrangiarsi, con molta solidarietà della famiglia estesa. I giovani si sposano anche se disoccupati, tanto vanno a vivere con i genitori del marito dove la pentola del cibo è grande. Con sacco di riso URWA, qualche cipolla e pomodoro si campa. E il venerdì si mangia meglio, con qualche pezzo di pollo si fa il maqluba (non so se si scriva così) ed è festa. Insomma se anche uno solo della famiglia estesa lavora, riescono a campare più o meno tutti. Salvo litigi. E poi ci sono quelli poveri che sognano per i figli un lavoro importante e li mandano all’università. Studiano inglese, business and administration, fisioterapia, legge, matematica. Magari con gli “internazionali” o addirittura l’UNRWA, ma devi conoscere qualcuno. Manca invece la facoltà di medicina e allora chi può esce da Rafah e va al Cairo. Ma devi avere qualche disponibilità. I ricchi vanno in Giordania. Aspettando che Rafah venga aperta. Per settimane.
Riflettendo trovo sempre più importante articolare la stratificazione sociale di Gaza, non solo basata sulla ricchezza della famiglia di origine, ma dal lavoro che si fa (anche se questo è collegato agli studi e quindi dalle disponibilità familiari). O dai traffici. O dalle posizioni politiche. Troppi sono poveri, ma non tutti. Almeno a vedere i Suv che circolano e alcune case dove siamo stati accolti. Comunque, come anche da noi, il ceto medio è a rischio, con una maggiore precarietà sugli stipendi che a volte non vengono dati per mesi o a singhiozzo.
Sabato. E’ bello stare a casa al computer. Siamo in un appartamento di 2 stanze con bagno in un condominio praticamente di lusso. Spendiamo 70 $ al giorno, quanto in albergo, con il vantaggio che possiamo cucinarci la cena e quindi risparmiare molto sui ristoranti. L’altra sera c’era con noi a cena Patrizia Cecconi e ci siamo fatte gli spaghetti con il pesto (tutto italiano) e pomodori e olive di Gaza. Infine il dolce palestinese. Siamo delle privilegiate. E’ utile ricordarcelo.
Oggi pomeriggio si lavora per l’altro progetto di Gazzella-Hanan (verifiche ecc.) domani ascolto di donne che hanno usufruito del progetto di AISHA, visite ai bambini disabili di Hanan. Lunedì visita alla nuova sede del Medical Relief, altri bambini.
Il primo maggio è festa anche qui. Andremo al corteo di Gaza city con i compagni. Penserò alle donne del Centro Lisa al campetto di via Capraia. E poi cominceremo a scrivere i vari report.
Il 2 usciamo da Gaza, la vecchia Gerusalemme ci accoglierà e magari ci faremmo una birra (finalmente) al Jerusalem Hotel. A Gaza restano i gazawi con i loro problemi. Infiniti.
Gaza city, 28 04 2018