Fare la spesa a Gaza. Dai volontari di Gazzella a Gaza

Pubblicato il 21 ottobre 2011 da Gazzella
 

A Gaza i negozi e i supermarket sono pieni di generi alimentari: dalla Nutella ai Corn Flakes Kelloggs’, dai formaggi alla pasta, scatolette di generi alimentari vari, shampoo e saponi, carta igienica e detersivi, abbigliamento e accessori.
Prodotti di varie marche tra le quali si distinguono, per quantità, Oreal, Nestlé e ovviamente prodotti di marca israeliana.
Spesso si incontrano nuovi centri commerciali, di moderna concezione, a più piani con ristorante.

L’accesso a questi beni di consumo è solo per pochi palestinesi, per chi ha un salario fisso (dipendenti pubblici, impiegati delle ong internazionali, liberi professionisti). Parliamo di circa il 30% della popolazione che ha un lavoro a Gaza.

Buona parte dei palestinesi vive con gli aiuti dell’ UNRWA, l’agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi. Le Nazioni Unite intervengono nelle aree più povere (campi beduini, famiglie dei campi profughi che vivono vicino ai border lines). Molti sopravvivono grazie agli aiuti delle associazioni benefiche islamiche. Aiuti mirati, utili e necessari, ma che non modificano lo stato delle cose. La politica internazionale sembra avere tutto l’interesse a mantenere tale situazione.

È chiaro che sopravvivere a Gaza è una vera impresa: c’è chi per poche migliaia di dollari collabora a vario titolo con altrettanti vari “interlocutori”; c’è chi cerca di sopravvivere con dignità come i pescatori e gli agricoltori che quotidianamente mettono a rischio la propria vita, come le donne che contribuiscono al mantenimento della famiglia facendo ricami o andando a servizio di famiglie benestanti. Altri hanno trovato nei tunnel (si dice più di 1.500). Il lavoro nei tunnel rappresenta un’alternativa, ma è un’alternativa non priva di rischi (i tunnel sono spesso sotto i bombardamenti israeliani).

Per poter entrare nell’area dei tunnel è necessario avere un’autorizzazione del Ministero degli Interni attraverso la sede locale a Rafah.

Non fanno problemi ad accordarci il permesso, ci chiedono di non fare riprese, ma solo foto e un uomo della sicurezza ci affianca nella “visita”.

Possiamo visionare solo i tunnel di “conoscenti” del mio accompagnatore; ci dirigiamo verso un tunnel dove arrivano dall’Egitto scarti di ferro che saranno venduti per essere successivamente lavorati e riutilizzati.

Per scendere nel tunnel la cui profondità è di circa 25 m. si utilizza una carrucola alla quale è agganciato un sedile di legno. Dal fondo un percorso di circa 2-3 km e si arriva in Egitto. I materiali più leggeri vengono fatti risalire servendosi di grosse ceste di plastica. In un tunnel vicino, è appena arrivato un “carico” di cipolle.

I materiali destinati alla ricostruzione arrivano attraverso tunnel di ampie dimensioni, ai quali non abbiamo avuto accesso.

I tunnel sono praticamente l’uno vicino all’altro “nascosti” sotto grandi tendoni. I generatori danno corrente per la movimentazione delle carrucole.

Tutta l’area al confine con l’Egitto è un grande cantiere, scavi e movimento di camion, ma si vedono anche piccoli mezzi di trasporto dei proprietari dei tunnel che spesso sono gruppi familiari e amici.

Con l’attività dei tunnel tante famiglie si mantengono e rompono l’assedio.

Da Israele attraverso Karni, il border commerciale, arriva un po’ di tutto. Sulla strada che collega Khan Younis a Gaza abbiamo visitato un grande negozio di abbigliamento che ci è sembrato praticamente la succursale di un magazzino israeliano. Lo si poteva dedurre dalle evidenti marche ed etichettature apposte sui vestiti e non solo.

Questa è la situazione a Gaza dopo tre anni dall’aggressione israeliana “Piombo fuso” e dopo cinque anni di assedio.

Non si può dire che manchino generi alimentari o materiali. Tuttavia circa il 70% dei palestinesi vive di espedienti e di aiuti umanitari e di fatto non ha diritto d’ accesso, ai beni disponibili.

In queste settimane si sta parlando in Europa della possibilità di inviare carovane di aiuti a Gaza. Ma è questo il principale bisogno della popolazione di Gaza?

A Gaza mancano sistemi fognari, la gente beve e mangia quello che espelle! La popolazione non ha a disposizione farmaci specifici per cancro, leucemie, talassemia, ecc, non ha accesso a servizi sanitari adeguati, cioè mancano le strutture e le attrezzature che possono far fronte alla diagnostica, alla prevenzione e alla cura. Mancano laboratori che possano elaborare indagini anche in campo ambientale, Gli abitanti di Gaza vivono su una terra contaminata dalle bombe al fosforo e da metalli nocivi alla vita e alla riproduzione, quale risultato dei continui bombardamenti con armi con convenzionali.

C’è la necessita di un piano di recupero e raccolta, non riciclaggio, dei materiali rimasti sul terreno dopo gli attacchi israeliani.

Tutti argomenti che ci pongono la domanda chi “pagherà tutto ciò” e quindi mettere sul piatto le responsabilità.

Non può essere il continuo intervento della Cooperazione Internazionale (che oramai ha assunto il ruolo di servizio sociale) che paga per chi ha distrutto (il denaro proviene dalle tasche dei cittadini) e i responsabili non vengono chiamati a rispondere, e così come pare evidente non risponderanno dei crimini commessi.

Gli aiuti umanitari a Gaza non bastano. È necessario promuovere e mettere in campo azioni politiche non solo di facciata, non discorsi in sedi istituzionali, ma riconoscere senza mezzi termini il diritto all’autodeterminazione dei popoli e il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese.

Se l’isolamento e l’assedio continuano Gaza resterà una prigione sotto attacchi e…. sotto assistenza.

G.B.T.

Gaza, 21 ottobre 2011

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