REPORT DALLA STRISCIA DI GAZA
26 novembre
2004 check point di Herez; controllo del passaporto e passaggio obbligatorio
nel tunnel, lungo piu’ di un km; non mi e’ mai piaciuto passare il tunnel da
sola, c’e’ un punto nel quale non ti vedono ne dall’una ne nell’altra parte, ma
il check point di Herez e il tunnel sono gli unici “veri” accessi alla striscia
di Gaza!
La scena che si
presenta e’ di distruzione. Lo scorso mese di giugno c’erano case, negozi,
frutteti, strade: oggi di tutto cio’ restano solo macerie.
Sono passati i bulldozer israeliani e sono stati fatti
“interventi mirati”.
Il taxista, che mi accompagna al centro del
Palestinian Medical Relief, mi racconta che negli ultimi due mesi gli
israeliani hanno intensificato le incursioni; stiamo transitando su quello che
e’ rimasto di una strada di collegamento con Gaza city: l’asfalto e’ stato
distrutto, la pioggia dei giorni scorsi ha riempito le “buche” , sobbalziamo,
continuamente, nella macchina.
Gaza city e’ ridotta a un pattumiera a cielo aperto:
da alcuni mesi l’ANP non invia fondi per i servizi pubblici cosi’ la raccolta
dell’immondizia e’ stata sospesa. I pochi soldi a disposizione sono per i
servizi essenziali quali sanita’ e per la quotidiana “emergenza”.
Abu Khousa, il direttore del Medical Relief a Gaza, mi
accoglie con il suo grande sorriso, stampato su di un viso piccolo e scuro; mi
mette a disposizione l’appartamento a fianco degli uffici.
Nel pomeriggio siamo gia’ al lavoro con Helane, la
nostra collaboratrice amministrativa a Gaza, per organizzare le visite ai
bambini.
Abbiamo in programma di visitare alcune famiglie: a
Knan Yunis, circa 20 km a sud di Gaza City, i cui abitanti sono stimati
complessivamente in 260.000 di cui 160.000 sono profughi e di questi 65.000
vivono nel campo profughi.
L’indomani partiamo alle ore 8,30 circa io, Helane e
Jamal.
Al check point di Al Amin dobbiamo abbandonare la
nostra macchina per utilizzare un taxi service. Arriviamo al centro del Medical
Relief cambiamo nuovamente mezzo di trasporto, ambulanza, e ci avviamo nel
campo profughi.
Le strade sono state completamente distrutte si vedono
le torri di controllo degli israeliani ed intorno case distrutte o danneggiate;
e’ in una di queste che troviamo Sahed Mohamad, 7 anni, con la sua famiglia.
E’ profondo il disagio che provi quando entri in una
casa dove vedi che non c’e’ quasi nulla e come prima cosa ti offrono the,
caffe’ dolci.
Mi faccio raccontare come Sahed e’ stato ferito: era
notte fonda quando gli israeliani sono entrati nel campo con i tanks; hanno
sparato sulle case e una bomba ha colpito la loro casa.
Sono rimasti feriti in cinque tra cui Sahed.
Difficile dire se sono piu’ dolorose le ferite sul
corpo o quelle che porta nella memoria e nel cuore.
E’ contento di vederci; gli consegno un biglietto
colorato inviato dalla sua famiglia adottiva e un piccolo regalo che di fretta
ho comperato: un cappellino da baseball, una sveglia inserita in una casetta
con topolini e delle matite colorate.
Gli chiedo se posso abbracciarlo; Sahed, con un po’ di
timidezza e dopo che il padre lo ha rassicurato, mi abbraccia.
Quando usciamo tanti bambini ci stanno aspettando per
salutarci .
Andiamo a cercare Mariam Mahmoud, 14 anni orfana del
padre dall’eta’ di 1 anno, che e’ stata ferita ad una gamba. Non e’ facile
rintracciare le persone in un campo profughi; spesso dopo le occupazioni dei
soldati le case vengono distrutte e le persone sono costrette a farsi ospitare
dai parenti.
Troviamo la casa e ci accoglie la zia con il braccio
una bimba di circa un anno. Aspettiamo che Mariam torni da scuola; nel
frattempo ci raccontano che sia di giorno che di notte i soldati sparano dai
vicini appostamenti che sono a protezione dell’insediamento dei coloni. E’
cosi’ che vengono feriti e uccisi i bambini che ignari dei rischi giocano nelle
strade sabbiose del campo profughi.
Aspettando, mi chiedo cosa potra’ pensare Mariam
“dell’internazionale”!
Le ho comperato una collana con orecchini, a 14 anni
dovrebbe piacere!
E’ piccola, Mariam, dimostra meno dei suoi anni e gli
occhi sono tristi. Le chiedo della scuola, mi fa vedere i quaderni, ordinati, e
qualche disegno.
Mi ringrazia per la visita e usciamo sotto una pioggia
sottile; mi accompagna una sensazione di “impotenza”.
Ritorniamo con l’ambulanza al centro del Medical
Relief e sono gia’ le ore 15,00. Decidiamo di mangiare kebab al “volo” e di
riprendere la strada per Gaza City poiche’ i tempi per gli spostamenti sono
lunghi.
Il taxi service ci riporta alla macchina e da li’
riprendiamo lentamente verso il check point e poi per Gaza City. Alle 18,30
arriviamo a destinazione: Helane mi chiede di andare a casa sua per la cena, ma
sento il bisogno di stare sola.
Stamattina si parte per Rafah a sud della striscia al
confine con l’Egitto: gli abitanti sono circa 160.000 di cui 145.000 sono
profughi e di questi 95.000 vivono nel campo profughi.
La distanza di 30 Km la copriremo in piu’ di 4 ore e
ci spostiamo con l’ambulanza: e’ piu’ sicuro.
Rabab ha 15 anni e porta i segni delle ferite su
entrambe le gambe. La sua famiglia e’ molto cordiale, ci accolgono nella casa
dei parenti, ospiti anche loro, poiche’ la loro e’ stata distrutta nel corso
dell’occupazione israeliana dello scorso mese di maggio.
A Rabab ho comperato un orologio da polso. Mentre
stiamo bevendo un the, numerosi colpi di mitragliatrice provengono dalla
strada. Mi avvicino alla finestra e subito il padre di Rabab mi allontana: “e’
pericoloso, non vedi i soldati, ma loro vedono te”.
Quando ripartiamo la situazione pare tornata
tranquilla; passiamo all’ospedale per informazioni e sappiamo che ci sono stati
sei feriti tutti tra i 6 e i 15 anni. La piu’ grave e’ una bambina ferita alla
gola.
Oggi e’ l’ultimo giorno a Gaza e abbiamo organizzato
una visita al campo profughi di Beit Hanun; difficile dire quanti abitanti,
visto che e’ stato quasi completamente distrutto e i palestinesi sono stati
costretti a trovare soluzioni abitative presso parenti e amici.
Beit Hanun si trova a nord di Gaza city al confine
israeliano, vicino al check point si Heretz .
Cerchiamo Fahmi Assad Salah Abu Salah , 17 anni,
ferito al piede; ha 8 fratelli di cui il piu’ piccolo e’ paralizzato dalla vita
in giu’.
Sara’ proprio questa ”informazione” a permetterci di
trovare la famiglia di Fahmi Assad.
Il ragazzo e’ ancora a scuola, frequenta un istituto
per tecnici elettronici.
Lo incontriamo velocemente fuori dalla scuola e’
timido ed e’ “vissuto” dalla sofferenza.
Gli ho portato penne e matite.
La giornata la concludo a Jabalia: circa 250.000
abitanti di cui 150.000 profughi e di questi 110.000 vivono nel campo profughi.
Vado a visitare alcuni bambini che sono nel programma
di riabilitazione del Medical Relief; si tratta di bambini nati con forme di
distrofia muscolare o paralizzati. Alcuni vengono assistiti a domicilio
(fisioterapia e sostegno psicologico alle famiglie) altri li trovo a scuola con
tutti i bambini, grazie al sostegno del personale del PMRS.
Oggi, 30 novembre, e’ giorno di partenza: nel corso
della mattinata, con Helane, definiamo le modalita’ amministrative e predisponiamo
la documentazione.
I saluti non mi sono mai piaciuti, ma credo neanche a
Abu Khousa, Helan, Jamal, e tutti gli altri del Medical Relief.
Sappiamo bene che non dipende da noi quando rivederci,
cosi’ Abu Khousa oggi e’ serio, non e’ persona che mette soggezione,
tutt’altro, ma oggi e’ diverso.
Helane mi regala un piatto disegnato: la spianata
delle moschee!
Un regalo ma anche un messaggio: vorrebbero poter
andare a Gerusalemme!
Sono le ore 15,00 che arrivo al confine: controllo del
passaporto da parte dei soldati palestinesi, registrano la mia uscita, scrivono
a penna su un quaderno, mi salutano ed entro nel tunnel!
Dopo piu’ di un Km arrivo alla porta di metallo, le
luci di due grandi fari mi accecano; passano circa 15 minuti e viene aperta la
porta: metto il passaporto, lo zaino e la giacca per il controllo su un
pannello mobile, ma ancora non vedo nessuno anche se dall’altoparlante mi
dicono cosa fare: devo girare su me stessa due volte!!, quindi si apre un’altra
porta di metallo e vedo i soldati dietro le postazioni; raccolgo la mia roba e
finalmente passo attraverso l’ultima porta di metallo.
Per il controllo mi attendono un cane e 4 soldati,
eta’ media 22 anni, con giubbetto antiproiettile, mitra in spalla: mi fanno le
prime domande e aprono lo zaino.
Dopo circa mezzora posso lasciare il primo posto di
controllo per il secondo: qui nuovamente zaino e giacca vengono controllati
elettronicamente, apertura nuovamente dello zaino, tutte le cose sono disposte
su di un piano; controllo personale con il metal detector e finalmente mi avvio
all’ultima fase: controllo del documento.
Sono circa le ore 17,00 quando esco nel piazzale dove
qualche taxista attende quei pochi che possono uscire dalla striscia di Gaza;
solitamente si tratta di internazionali (giornalisti e volontari). Entrambe le
volte che sono stata a Gaza ho passato il tunnel in “solitaria”.
Aspetto il taxista che ho fatto venire da Gerusalemme,
preferisco spostarmi con il servizio taxi gia’ “testato” .
Lasciare i territori occupati e’ difficile, cosi’ come
lo e’ viverci o starci per qualche giorno!
Un abbraccio a
tutte le famiglie che aderiscono al progetto Gazzella.
G.