Articolo tratto da http://www.aljazira.it
Sono passati tre anni da quel terribile aprile 2002, ma i ricordi sono ancora scavati nella memoria dei testimoni. Gli abitanti del campo di Jenin raccontano i particolari di un massacro e dell'eroica resistenza.
Una madre e i suoi bambini
strisciano per terra rotolando da una stanza ad un’altra, per paura dalle
pallottole che piovono da ogni parte; ode l’adhan, il richiamo per la
preghiera della sera, alza le mani e gli occhi verso il cielo invocando il
Signore affinché la salvi con la sua famiglia dalla morte…
Una scena che i migliori registi
non riescono a realizzare, mentre si tratta della realtà vissuta da Umm Ramzi -
«la madre di Ramzi» – con la sua famiglia durante la grande invasione israeliana
del campo di Jenin nell’Aprile del 2002, durante la quale le forze d’occupazione
commisero un massacro ammazzando decine di martiri e provocando centinaia di
feriti, così come la distruzione di case ed altre strutture. Umm Ramzi torna
con la memoria al massacro: “Le pallottole potevano ammazzare me e i miei
familiari… molte pallottole hanno trapassato i muri della nostra casa… ci siamo
sentiti in pericolo, così ci siamo buttati tutti per terra ed abbiamo cominciato
a strisciare verso la cucina ripetendo la testimonianza di fede [la
shahada, che recita “Non c’è divinità se non Iddio e Muhammad è l’Inviato
di Dio, NdT]… sentivamo la morte che ci attaccava da ogni
parte”.
Ed ha poi aggiunto Umm Ramzi, che
ha la casa completamente distrutta: “Mio marito si stava preparando per fare
l’abluzione per la preghiera della sera, quando siamo rimasti sorpresi dal
bombardamento – al quale hanno partecipato anche degli aerei – da parte di carri
armati posizionati nella piazza centrale del campo”.
Il quartiere di al-Hawashin, nella
parte ovest del campo, è diventato famoso: le escavatrici israeliane hanno
distrutto tutte le sue case spianandole al livello del terreno. La sequenza di
eventi terribili vissuti da migliaia di famiglie dello stesso quartiere a
partire dalla sera del quinto giorno della battaglia del campo di Jenin, è
iniziata quando a causa della fermezza degli abitanti i carri armati israeliani
accerchiarono il campo impedendone l’accesso.
Umm Ramzi prosegue nel racconto:
“Tutti, nel campo, avevano deciso di resistere con fermezza. Poi hanno
cominciato a demolire le case, ci hanno buttato nelle strade sotto la pioggia e
al freddo: decine di bambini, donne e anziani tremavano dal freddo. Così abbiamo
affrontato la durezza israeliana ed una morte lenta, in specie quando il
bombardamento si è fatto più intenso”. Umm Ramzi parla di quei giorni come dei
“più duri e più difficili” della sua vita, ed ha detto: “Ci muovevamo
strisciando per terra, dormivano in cucina sotto le sedie, mentre le pallottole
provocavano l’incendio nella casa del nostro vicino Abu Ahmad, il quale si è
salvato per miracolo”.
Da parte sua, Abu Ahmad Jaradat,
raccontando ciò che è successo a lui e alla sua famiglia in quella notte nella
quale gli aerei israeliani hanno bombardato il campo gettando più di mille bombe
(come hanno detto i responsabili israeliani), ha detto: “In solo attimo ci si
trovava tra la morte e la vita. Ad un tratto, ci sono piovute le pallottole
dentro la casa, dove mi trovavo seduto con la mia famiglia, così abbiamo
iniziato a strisciare per terra verso la casa vicina, ed appena usciti la nostra
casa si è incendiata, e tutto è andato distrutto”.
Naser Farahneh, la cui famiglia ha
vissuto più di venti giorni all’aperto, afferma che ancora 650 famiglie vivono
disperse fuori dal campo ed attendono di farvi ritorno, quando finirà la
ricostruzione.
Sui crimini israeliani commessi
nel campo, Ibrahim Dababneh, il direttore della Mezza luna rossa, esclama: “Le
ambulanze ed i soccorritori furono impediti ad entrare nel campo durante tutto
il periodo del massacro. Circondarono
‘Abd el-Razeq Abu l-Haija’,
Direttore dell’ufficio dell’Onu che si occupa profughi palestinesi (UNRWA),
ricorda: “L’occupante ha distrutto intenzionalmente le reti della corrente,
dell’acqua, dei telefoni e delle infrastrutture, isolando il campo dal mondo,
impedendo alle Nazioni Unite, alla Mezza luna rossa ed ai giornalisti l’ingresso
nel campo durante i massacri”.
Faryal al-Shalabi non riesce a
dimenticare la morte del marito e del vicino: “Ho visto i soldati quando hanno
arrestato mio marito (Wadah), mio zio e il nostro vicino ‘Abd el-KArim as-Sa‘di.
Li hanno messi sul portone di casa e gli hanno sparato: mio marito e as-Sa‘di
sono morti, e mio zio si è salvato per miracolo. I cadaveri sono rimasti in
strada fino alla fine del massacro, e non ho potuto gridare per paura di essere
scoperta dai soldati ed uccisa”. “I carri armati e le escavatrici hanno
cominciato a distruggere le case sui loro abitanti, visto che non hanno potuto
occupare il campo. Hanno arrestato tutti gli uomini e li hanno buttati per la
strada, per poi costringerli a spogliarsi davanti ai nostri occhi. Ma non gli è
bastato questo: ci hanno cacciato fuori dal campo, in strada, dove c’erano molte
situazioni terrificanti… abbiamo visto tanti cadaveri gettati e fatti a pezzi,
ed un carro armato che passava sopra il cadavere del martire Jamal as-Sabbagh,
mentre i soldati torturavano i feriti”.
In base ai dati ufficiali
palestinesi, furono uccisi 63 palestinesi, centinaia furono i feriti, più di 450
le case demolite, e tutti i maschi del campo di età tra i 15 e i 50 anni vennero
arrestati; i caduti da parte israeliana, come hanno ammesso ufficialmente gli
israeliani, furono 32, e decine i feriti.
Jamal Zayed spiega come un gruppo
di resistenti prese come base l’appartamento vicino al suo: “Non riesco a
credere a ciò che hanno visto i miei occhi. Lo scontro era faccia a faccia: più
s’intensificavano i bombardamenti, più saliva il morale dei combattenti, i quali
rifiutavano di arrendersi. Gli invasori non poterono andarsene né avanzare di un
solo metro per più di dieci giorni, perché la resistenza gli stava addosso”.
“Anche gli angeli combattevano con noi nel campo. Quante volte venivano
circondati i combattenti e, all’improvviso, si liberavano dall’assedio mentre i
sionisti si ritiravano… Li ho visti (i soldati israeliani) piangere ed insultare
Sharon…”.
Umm ‘Ali ‘Uways racconta di quel
giorno in cui con le donne del quartiere collaborava alla fornitura del cibo ai
combattenti: “La resistenza del campo rimarrà nella leggenda. Grazie
all’intelligenza, alla forza e alla volontà dei combattenti che si disposero in
ogni angolo del campo, riuscendo a tendere imboscate ai soldati”. “Erano una
sola mano, e nessuno li divideva. Un un’unica voce e un unico sogno. Ho visto
sempre le loro facce piene di luce e ripetevano «Allahu Akbar» (Iddio è il più
grande) ad ogni attacco. Degli eroi: quando i soldati ci circondavano e ci
minacciavamo, essi li attaccavano, e mettendo la loro vita in pericolo ci
mettevano in salvo”.
Ahmad Abu A‘lya narra: “Non
vedevamo dentro il campo altro che i resistenti che si equipaggiavano e
seminavano le mine nelle viuzze… ispezionavano gli ingressi del campo, i loro
quartieri generali, e distribuivano agli abitanti del campo generi alimentari ed
altri beni necessari”. “Era meravigliosa questa armonia tra gli abitanti del
campo ed i resistenti; il campo intero ha stretto in un abbraccio quei
resistenti che l’hanno difeso con tutta la loro forza, e per questo le forze
occupanti non sono potute entrare nel campo fintantoché i resistenti non hanno
esaurito le loro armi. Il loro magnifico comportamento resterà nella
storia”.
La resistenza unitaria nel campo
di Jenin era stata preparata bene, sin dalla fine del precedente attacco al
campo: poiché tutti erano convinti che era necessaria una grande resistenza,
vennero raccolte armi, addestrati i combattenti e preparati i piani. C’era anche
una stanza dove venivano coordinate le operazioni unitarie dei resistenti delle
Brigate al-Qassam, l’ala militare del movimento di resistenza islamica Hamas, le
Brigate dei Martiri di al-Aqsa appartenenti ad al-Fatah e le Brigate di al-Quds
del movimento di al-Jihad al-Islami.
Il martire Mahmud Abu Hulwa era il
comandate sul campo delle pregate al-Qassam, il martire Mahmud Tawalba il
comandante sul campo delle Brigate al-Quds, e il martire Ziyad al-‘Amer il
comandante sul campo delle Brigate dei Martiri di al-Aqsa sul campo della
battaglia, mentre il martire Yusuf Rayhan, conosciuto come ‘Abu Jandal’,
comandava una squadra della Sicurezza Nazionale impegnata sotto la sua guida
nelle battaglie avvenute nel corso degli attacchi al
campo.
Il giornale palestinese «Al-Hayat
al-Falastiniyya» (La vita palestinese), nel suo numero uscito ieri sabato 2
aprile 2005, riporta il racconto di uno dei combattenti salvatisi. Egli descrive
la preparazione alla battaglia: “Avendo valutato tutti gli errori commessi
durante gli attacchi precedenti, avevamo preso adeguate contromisure; la più
importante era questa: siccome le forze d’occupazione all’inizio di ogni attacco
tagliavano le linee telefoniche, fisse e mobili, per impedire le comunicazioni
tra i combattenti ed isolare il campo con l’esterno, decidemmo allora
d’introdurre telefoni israeliani ‘Orange’ con apertura di comunicazione verso i
telefoni palestinesi ed i cellulari”.
“Ciascun gruppo aveva i suoi depositi, coordinati con quelli degli altri gruppi, e ad ogni deposito venne assegnato un responsabile. Tutti i preparativi vennero fatti per bene: fu stabilito un piano di valutazione della capacità di resistenza del campo in base ad un uso pianificato delle armi, e venne istituita una commissione per coordinamento tra i vari quartieri in moda da coprire eventuali insufficienze delle scorte di armi”.
fonte: as-Sabil (Giordania), 3
aprile 2005
Traduzione di M. Kh. per Aljazira.it
Sullo stesso argomento v. anche: «Jenin Jenin»: un film per la pace e la giustizia.