Autore: PAOLO BARBIERI / MAURIZIO
MUSOLINO
Titolo: BARGHOUTI. IL MANDELA
PALESTINESE
Editore: Datanews,
2005
Pagine: 160
Prezzo: 13 euro
La
vicenda politica ed umana di Marwan Barghouti, leader politico di al-Fatah assai
popolare tra la sua gente detenuto in un carcere israeliano dall’aprile 2002 con
accuse che ruotano attorno alla nozione di “terrorismo”, ci impone, una volta di
più, d’interrogarci su quello che significa, oggi, questa parola. “Terrorismo”
non è più quello che ci racconta un qualsiasi dizionario della lingua italiana,
ma viene ormai spacciato per sinonimo di “resistenza”.
In
poche parole, i detentori del potere ed i loro trombettieri, intendono far
passare l’idea che resistere ad un’invasione è sbagliato, che chi resiste ad
un’occupazione è un “terrorista” e che c’è la “guerra al terrorismo”: “Il
terrorismo è una drammatica realtà del presente, ma la grande menzogna che viene
propalata con estrema faciloneria (quando non si tratti di colpevole complicità
con il potere politico) dalla maggioranza dei mezzi di informazione occidentali
è che il terrorismo sia una politica, e non un metodo di lotta
politica, che per quanto ripugnante può, quindi, essere adottato dai
soggetti più diversi, anche nemici in guerra tra loro e ideologicamente
diversissimi” (p. 23).
Dunque,
in una guerra, ciascuno mette in campo i mezzi che ha. Altrimenti, si diano
aerei, elicotteri, carri armati, corvette, satelliti, bulldozer anche ai
palestinesi. Il resto sono solo chiacchiere.
Ma una
volta imposta la mistificazione mediatica per cui il problema è il “terrorismo”
(palestinese), tutto si semplifica. Si spianano delle abitazioni? “Erano di
sicuro abitate da terroristi”! Si lanciano razzi su un corteo funebre? “Vi si
commemorava un terrorista, e terroristi erano comunque tra i presenti”! Si
confiscano patrimoni e conti in banca? “Di certo servivano a finanziare il
terrorismo”! Si spara sui contadini che difendono i loro olivi? “Comunque,
avrebbero fornito appoggio, rifugio, a dei terroristi”... Addirittura, secondo
le autorità israeliane, esisterebbe di fatto un “terrorismo da omissione”,
ovvero il non essersi adoperati per impedire il “terrorismo” (di qui la
giustificazione della prolungata reclusione forzata del Presidente Arafat)! Il
risultato è tuttavia sempre lo stesso: umiliazioni, assedi, distruzioni,
uccisioni… nella pressoché totale indifferenza di quella cosca mafiosa che è la
“comunità internazionale”.
Non
sia mai detto poi che esiste un “terrorismo di Stato”, qual è quello che la base
politico territoriale del Sionismo (lo “Stato d’Israele”) pratica da decenni,
nell’impunità più assoluta, ai danni dei palestinesi[1].
E persino il “terrore” non è lo stesso a seconda di chi lo vive: “Così quando
gli iracheni vivono sotto le bombe per mesi, minacciati da elicotteri, carri
armati e checkpoint americani non anno diritto ad essere terrorizzati, ma
diventano immediatamente preda del terrore quando ad esplodere sono i kamikaze
invece delle cluster bomb, del fosforo o del napalm […]” (p.
23).
Si è
capito dunque che i palestinesi, qualunque cosa facciano per combattere
l’occupazione (dall’uomo bomba al guerrigliero, senza risparmiare chi s’impegna
sul fronte dell’informazione non embedded), sono “terroristi”, quindi
sbagliano. Questo snodo fondamentale è colto bene nel libro Barghouti.
Il Mandela palestinese, che
Paolo Barbieri e Maurizio Musolino dedicano ad una delle ultime e più limpide
figure espresse da una parte di umanità che da quando è nata ha solo visto
l’occupazione della propria terra[2].
Il processo a Marwan Barghouti è, essenzialmente, un processo politico, il cui
obiettivo è, come sottolineano gli autori, processare l’intero popolo
palestinese. “[…] è così difficile disgiungere le accuse a suo carico, le prove
che la giustizia israeliana ha considerato sufficienti per condannarlo, dal
contesto politico [il fallimento degli “accordi di Oslo”[3]
e la nuova intifada, NdR] nel quale il processo si è svolto e dal
significato politico che esso ha assunto” (p. 63).
Ma
come in tutti i processi di questo tipo (si pensi a quello a Slobodan
Milosevic), l’accusatore diventa ben presto l’accusato: il pezzo forte del libro
è difatti l’atto di accusa di Barghouti da egli pronunciato nell’udienza del 3
ottobre 2002[4],
il quale è “un documento politico, ma anche un dettagliato elenco di nomi,
fatti, circostanze”. In 54 “capi d’imputazione” c’è tutta la storia del terrore
(altro termine su cui è volutamente operata una mistificazione)[5]
inferto alla popolazione palestinese, “il racconto di una violenza quotidiana e
diffusa, che trascende le ragioni della storia e soffia via la cortina fumogena
della cosiddetta guerra di religione, infrange il mito della democrazia
assediata e getta un’ombra cupa sull’ideale un tempo mitico della nazione
israeliana […]” (p. 59)[6].
L’autodifesa
di Marwan Barghouti, è l’ennesima dimostrazione che la miglior difesa è sempre
l’attacco. Perché mai attestarsi ‘sulla difensiva’ in un processo nel quale su
128 testimoni ben 96 sono israeliani (63 dei quali investigatori o associati
all’investigazione su Barghouti) ed i 21 testimoni palestinesi non hanno
ripetuto in aula una sola parola delle loro accuse fioccate così generosamente
nelle carceri israeliane in cui si trovano?
Ecco
perché le parole con cui il j’accuse di Barghouti si apre (“Marwan Hassib Barghouti, in nome
del popolo palestinese, accusa – contro – lo Stato d’Israele”) rappresentano la
consapevolezza che se la partita in gioco è la criminalizzazione del diritto a
resistere (e ad esistere) di un intero popolo, tanto vale giocare sullo stesso
piano, quello di un processo politico, incentrato però, si badi bene (ed è
questa la capitale differenza tra
La differenza – ‘di stile’, o di
sensibilità - non è da poco: significa che se un giorno
Dunque, la questione cruciale per
i palestinesi è come riconquistare la sovranità sulla loro terra:
politica, sociale, culturale, economica. Ne sarà protagonista – come prefigura
(e si augura) il titolo del libro – un “Mandela
palestinese”?
In Sud Africa, alla fine, ha
prevalso la ragione contro l’ideocrazia, è stato riaffermato il diritto naturale
degli autoctoni a potersi autogovernare. Il j’accuse di Barghouti è in
pratica lo stesso di Nelson Mandela lanciato, nel 1964, all’indirizzo dei
razzisti di Pretoria[8].
Sappiamo poi com’è andata in Sud Africa: uno Stato per tutti i suoi cittadini, e
non certo sul 22%... “Resistenza non è terrorismo”: è questo il messaggio
testimoniato dalla vita e dall’opera di Marwan Barghouti[9].
[1] “Il terrorismo, in altri termini,
può anche essere, anzi il più delle volte è, ‘terrorismo di Stato’, come ci
insegna la storia”. Fabio Marcelli, Il processo a Marwan Barghouti e il
problema dei prigionieri politici, pp. 97-119 di questo volume (cit. p.
112). Cfr. anche il fondamentale Serge Thion (a cura di), Sul terrorismo
israeliano, (trad. it.) Graphos, Genova 2004, di cui ho scritto una
recensione su “Eurasia”, 1/2005, pp. 219-228 ( in rete: http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=547
).
[2] Un’avvincente biografia di
Barghouti si trova alle pp. 31-52.
[3] “Prima Peres, poi Netanyahu e
Barak non dimostrano di voler rispettare gli accordi firmati […]”, p.
44.
[4] Marwan Barghouti accusa lo
Stato di Israele, pp. 77-96. L’atto d’accusa si compone di Capi d’accusa
contro lo Stato di Israele (Dichiarazione di imputazione; Leggi, trattati e
convenzioni violate) e Capi d’accusa specifici contro lo Stato di Israele
(I. Crimini di guerra e crimini contro l’umanità; II. Negazione dell’assistenza
sanitaria; III. Espulsioni; IV. Demolizioni di case e distruzioni di proprietà;
V. Confisca della terra e colonizzazione; VI. Confisca dell’acqua; VII.
Violazione del processo dovuto e tortura; VIII. Distruzione dei mezzi di
sostentamento; IX. Discriminazione ed apartheid; X. Negazione della libertà di
stampa; XI. Negazione dell’istruzione; XII. Negazione della libertà di
religione).
[5] Sullo strapazzamento dei concetti
di “terrore” e di “terrorismo” ho scritto alcune note, citate in questo stesso
volume (pp. 22-23) come “meticolosa ricostruzione”: I palestinesi che si
fanno esplodere: ‘martiri’ o ‘terroristi’?, “LiMes”, 2/2003, pp.
227-228.
[6] A dire il vero, anche gli Autori
concedono qualcosa a tale “mito”, quando affermano che Israele è “uno Stato che
ha solidissime basi legali e giuridiche democratiche, ma che applica regole
diverse, e riconosce diversi diritti alle popolazioni arabe ed a quelle di
origine europea, a cristiani, islamici ed ebrei a seconda della loro origine
etnica o religiosa” (p. 20). L’equivoco - è evidente - sta proprio nella
valutazione di una discriminazione pianificata, che non ha le sue radici in “un
virus che è, evidentemente, dentro di noi [europei, NdR]”, ma, come
acutamente (ed impietosamente) osservato da Israel Shahak, nella visione del
mondo talmudica – profondamente razzista - fatta propria dall’élite sionista.
Cfr. I. Shahak, Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni,
(trad. it.) Centro Librario Sodalitium, Verrua Savoia 1997 (prefaz. di Gore
Vidal). Il libro di Shahak – se vogliamo, definibile come “umanista integrale” -
è uscito in edizione in lingua inglese per Pluto Press Limited, la casa editrice
che ha pubblicato testi di N. Chomsky e E. Said, e solo perché in Italia si ha
il “terrore” (!) di compromettersi è stato tradotto per i tipi di un editore
“cattolico integrale”.
[7] Non parlo intenzionalmente di
“popolo israeliano” per il semplice motivo che non è possibile attribuire la
qualifica di popolo ad un’aggregazione di individui che si riconoscono in una
idea, politica o religiosa che sia. Altrimenti avremmo, ad esempio, il “popolo
buddista”, il “popolo di Scientology” o il “popolo liberale”. L’utilizzo di
denominazioni quali “il popolo della sinistra” è comunque rivelatore della
misura in cui, anche inconsapevolmente, trova accoglienza il concetto di ‘popolo
ideocratico’. Non parliamo infine del “popolo delle partite IVA” o del “popolo
delle discoteche”…
[8] Non è un caso che spesso di parli
di “bantustan palestinesi” per definire le aree nelle quali la
popolazione autoctona è costretta a (soprav)vivere… Per ironia della sorte, fu
proprio in Sud Africa, a Durban, dal 31 agosto al 7 settembre del 2000, che nel
corso della Conferenza mondiale dell’Onu sul razzismo l’immagine dello
Stato d’Israele e del Sionismo (e anche del loro sponsor statunitense) toccò uno
dei punti più bassi della storia recente, al punto che, isolate da tutte le
altre, le delegazioni israeliana e statunitense dovettero abbandonarla. Ma
quattro giorni dopo, sarebbe scoppiato il ‘big bang del XXI secolo’, l’11
settembre…
[9] A tal proposito si legga di
Antonio Venier, Considerazioni sulla distinzione tra guerriglia e
terrorismo, “ISTRID - Istituto Studi
Ricerche Informazioni Difesa”, dicembre 2003 ( in rete: http://www.aljazira.it/index.php?option=content&task=view&id=436
), significativo perché pubblicato su una rivista d’ambiente militare.