Resoconto 6 – 18 luglio 2006
Cari amici di Gazzella,
ancora un mio resoconto dalla Striscia di Gaza. Avevo già programmato
questo viaggio, ma le date che avevo ipotizzato per la mia partenza hanno poi
coinciso con l’ennesimo delinquenziale assedio-aggressione israeliana che ha
portato – tra l’altro – alla distruzione della centrale elettrica di Gaza e di
numerosi ponti di collegamento. Sono abituata a condividere con i palestinesi
l’occupazione militare, a piangere i loro morti, a tentare di confortarli nella
sofferenza di una vita che, appunto, ‘non è vita’….. però stavolta ho dovuto
quasi impormi di partire, combattuta
fra la consapevolezza dell’orrore che quella mattanza quotidiana mi avrebbe
rinnovato e l’angoscia manifesta dei miei familiari che mi pregavano di
rimandare. Non sono una martire, nel senso etimologico del termine, non ho una
fede per cui sacrificarmi…. Voglio solo essere testimone oculare di ciò che
Israele fa in un territorio che occupa militarmente e illegalmente, essere
solidale con chi subisce un crimine e darne il più possibile conoscenza.
Dunque, ho pensato, molto, ho discusso, ho sostenuto le mie ragioni e sono
partita.
Sono arrivata a Gaza il 6 luglio, ad accogliermi ho trovato bombardieri
F16, elicotteri d’attacco Apache, carri armati e navi da guerra, ancora appostate
a largo, puntate verso lo stesso tratto di spiaggia sulla quale pochi giorni
prima avevano cannoneggiato, sterminando un’intera famiglia: sette persone,
padre, madre e cinque figli. Solo Huda, sette anni, è sopravvissuta. Ho avuto
modo di incontrarla, un piccolo essere terrorizzato, e di lei dirò più avanti. Gli
amici del Medical Relief mi fanno un crudo resoconto di questi giorni di raid, blitz, operazioni israeliane, come
vengono con delicati eufemismi definiti i delitti dell’esercito occupante:
nelle ultime tre settimane si contano più di 100 morti e oltre 400 feriti,
uomini, donne e bambini. Le zone più colpite sono quelle a nord della Striscia
di Gaza:
Jabaliya, Beit Hanun, e Beit Lahiya, dove i carri armati, muovendosi dal
posto di blocco di Eretz, e penetrando nel territorio per circa quattro
chilometri, si sono appostati a ridosso delle case. A Rafah, a sud della Striscia,
al confine con l’Egitto, gli israeliani hanno occupato la zona dell’aeroporto,
che si trova a ridosso del campo profughi chiamato - forse nella speranza di una
allegria comunque negata - Brasil; i carri armati sono arrivati anche a Karni,
il posto di blocco commerciale, ed ancora nel centro della Striscia a ridosso
di Deyr Balah e Khan Yunis.
Un’invasione che di fatto vede gli israeliani riprendere il possesso e il
controllo dell’intero territorio che solo un anno fa avevano finto, con fini
palesemente propagandistici, di abbandonare. In queste operazioni sono state distrutte circa 100 abitazioni civili,
infrastrutture, ponti, strade. Sono stati devastati centinaia di ettari di
coltivazioni di frutta e ortaggi. La popolazione è terrorizzata.
Ho trascorso l’intero pomeriggio del 6 luglio, e mi sono trattenuta fino
a tarda sera, all’Ospedale Shafi di Gaza, dove le ambulanze scaricavano in
continuazione cadaveri orrendamente mutilatati di palestinesi, civili e
combattenti, caduti sotto il fuoco israeliano. Trasportavano feriti da portare
con urgenza in sala di rianimazione. Ho visto braccia e gambe mozzate, corpi
bruciati e mutilati. I medici stremati e impotenti, prelevavano al volo sangue
per frenare emorragie, si scambiavano i guanti di lattice, lottavano contro la
mancanza dei più banali medicinali e presidii di pronto soccorso. E
denunciavano l’uso di armi chimiche o batteriologiche, proprio per quelle
ustioni - mai osservate prima - sui corpi dei morti e dei feriti. Ho cercato di
estraniarmi da tutto quell’orrore, millantando coraggio ho confortato parenti e
amici, condividendo con loro l’estenuante attesa di notizie sulla sorte dei
loro cari. Ho abbracciato e stretto mani di donne e uomini sconosciuti. Ho
ricacciato indietro le lacrime e mi sono vergognata della mia debolezza. È
stato allo Shafi Hospital, quel pomeriggio, che ho incontrato Mustafa
Barghouti, ‘vecchio’ resistente, medico, nato a Gerusalemme, che ha fondato nel
1979 i Comitati di soccorso medico palestinese. Avevo già avuto modo di
conoscerlo, in precedenti occasioni. Barghouti è una persona dai modi gentili, che
in passato è stato ferito, incarcerato e torturato dagli israeliani. Alle
recenti elezioni politiche ha partecipato con un partito di ispirazione laica e
di sinistra da lui fondato: al-Mubadara – l’iniziativa.
Questo breve inciso sulla persona è per dirvi che è uno ‘che ne ha passate
tante’….. Ebbene, quel pomeriggio, ho visto sul suo viso disperazione, rabbia,
impotenza: quasi piangendo mi ha chiesto se era possibile – tramite Gazzella –
sovvenzionare l’acquisto urgentissimo di 4 generatori elettrici da destinare ai
centri di riabilitazione motoria di Jabaliya e di Khan Yunis, al centro di
soccorso medico di Jabaliya e agli uffici di Gaza. Ed anche di medicinali di
primo soccorso e salva-vita. Barghouti mi ripete che la centrale elettrica è
stata completamente distrutta. Si ricorre per 18 ore al giorno ai generatori,
mentre per le rimanenti 6 ore l’elettricità viene fornita da una società
privata israeliana, che la eroga, ovviamente, a costi esorbitanti. Si prevede
che questa devastazione lascerà
Nel tentativo di dare un minimo di aiuto a questi medici coraggiosi decido
di incontrare il direttore del centro della Croce Rossa Internazionale di Gaza.
Alle mie pressanti richieste di una spiegazione, motiva che la loro
“impossibilità di intervenire in soccorso delle vittime palestinesi, deriva dal
fatto che le IOF (Forze di Occupazione Israeliane) non autorizzano gli
interventi di soccorso che si esplichino nel corso delle ‘azioni militari’. E
così i feriti rimangono a dissanguarsi a terra, per ore, privi di assistenza, ed
i morti vengono lasciati esposti, non solamente uccisi, ma pure violati e
offesi dalla pratica – antica e crudele – di impedire a coloro che li amano di dar
loro sepoltura.
Nei giorni seguenti da Gaza ho raggiunto Bayt Lahiya. Vi riporto così
senza commenti (cosa potrei mai aggiungere!) il racconto di una famiglia che ho
visitato: “Abbiamo ospitato nella nostra casa sette combattenti resistenti di
età compresa tra i 18 e 23 anni, armati di kalashnikov, che fuggivano
dall’avanzata dei carri armati. Li abbiano fatti entrare e li abbiamo nascosti,
ma dopo poco gli israeliani, che utilizzano armi di alta precisione, li avevano
già individuati. Hanno circondato la casa ci hanno intimato di uscire e hanno
lanciato un missile. Sangue, brandelli di resti umani sparsi dappertutto e solo
dopo due giorni, è stata ritrovata la testa di una delle vittime”.
Il ritiro dell’esercito dal villaggio di Beit Lahiya, dopo due giorni di
occupazione, ha lasciato ovunque distruzione: le case palestinesi utilizzate
come postazioni di controllo dall’esercito israeliano, venivano al loro interno
devastate: buchi sulle pareti da parte a parte per poterci infilare le
mitragliatrici; mobili, oggetti vari, tutto saccheggiato. Per oltre 48 ore intere
famiglie, spesso numerose, sono state rinchiuse in una unica stanza, tenute
senza cibo né acqua, senza la possibilità di utilizzare i servizi igienici, grandi
e piccini costretti, in alcuni casi, a rimuovere il pavimento di mattonelle per
arrivare alla sabbia, per poter espletare i propri bisogni fisiologici. È evidente
l’intento non solo di eliminare il ‘nemico’ ma ancor più di umiliarlo, di
oltraggiarlo, di renderlo simile a una bestia, di trasformarlo in un ‘Untermensch’, (sub-umano) progetto un tempo condiviso dal Terzo Reich nazista.
Durante questo viaggio i miei spostamenti da un luogo a un altro sono
stati veloci, poco in strada e con automezzi, se possibile, del Medical Relief.
Il rischio di restare vittima degli attacchi israeliani è un pericolo per
tutti: gli ‘omicidi mirati’ con “missili intelligenti” colpiscono
macchine in movimento su strade affollate e abitazioni civili. Non sono
riuscita a raggiungere i campi profughi dove vive la maggior parte dei nostri
bambini. A Bayt Hanun, ad esempio, i carri armati sono appostati dietro la casa
della ‘nostra’ piccola Nur, a Beit Lahiya abbiamo, a nostro rischio e pericolo,
raggiunto la casa di Issa, Ibrahim e Imad, i ragazzi che hanno avuto le gambe
amputate e dei quali ho raccontato spesso nei miei precedenti resoconti.
Proprio a casa di Issa ho incontrato Huda la bambina rimasta orfana a seguito
del cannoneggiamento israeliano sulla spiaggia di Gaza e della quale accennavo
all’inizio di questo mio scritto. Huda ed Issa sono cugini e la famiglia di
quest’ultimo, già duramente provata, ha accolto in casa la bambina. Con
evidente disincanto mi hanno raccontato che dopo la pubblica dichiarazione del
presidente Abu Mazen, riportata con evidenza dai media di mezzo mondo: “….mi
prenderò cura della bambina rimasta orfana….”, loro, in realtà, non hanno ricevuto
alcun aiuto e nessuno si è fatto più sentire. Non mi sono sembrati molto
sorpresi della mancata parola, ho percepito una sorta di assuefazione
all’abbandono; proprio per questo, a maggior ragione, sono convinta che tutti
noi che a vario titolo operiamo in Palestina a sostegno della popolazione, dobbiamo
continuare, magari a piccoli passi, a mantenere e implementare tale sostegno.
Solo così dimostriamo loro la nostra volontà di aiutarli, di farci “carico” –
in senso laico - delle loro sofferenze dando loro la speranza che si può e si
vuole cambiare lo stato delle cose.
Sulla via del ritorno uscendo da Gaza, al posto di blocco di Eretz, sono
stata - come sempre - sottoposta al controllo effettuato mediante irradiazione
di raggi X, da me più volte denunciato, oltre al metal detector. Avevo deciso,
in accordo con gli amici di Gazzella, di recarmi alcuni giorni in Cisgiordania,
per prendere contatti con i medici del posto e valutare la possibilità di
‘adozioni’ in quella zona. Anche qui, sulle strade di collegamento, ho subito estenuanti
ispezioni e perquisizioni, ho raggiunto posti di blocco che mi rimandavano
indietro….. partendo da Ramallah sono arrivata a Tulkarem a bordo di
un’ambulanza del Medical Relief – per facilitare i passaggi – ma certo distogliendo
un mezzo che avrebbe potuto essere utilizzato in modo diverso.
A Nablus ho
trovato una situazione apparentemente tranquilla per i due giorni che mi sono
trattenuta; poi è iniziato l’attacco dell’esercito israeliano al centro storico
della città, contro la popolazione e alle strutture governative….. Sono partita
da Nablus con un taxi collettivo alle ore 18,30 con destinazione Gerusalemme
dove sono arrivata alle 22,00. Ho traversato il posto di blocco di Awara, ho
raggiunto Ramallah, dove, in piazza al-Manara, ho cambiato taxi. Al posto di
blocco di Qalandiya, ho lasciato il taxi, ho attraversato il posto di blocco e ho
preso un altro taxi per Gerusalemme. Ho coperto una percorso di circa
Sull’aereo
che mi riporta in Italia, chiudo gli occhi e cerco di dormire: sono stati
giorni duri e mi sento come svuotata…. Ritornano le immagini di Hebron, una
città completamente blindata e mi opprime la consapevolezza di una tragedia che
si sta consumando nell’indifferenza generale…. Ed ora anche il Libano… il massacro
continua…. Onore all’unica democrazia del Medio Oriente!
Giuditta