Carissimi amici di Gazzella,
sembra ieri e invece è già passato un mese.
Esattamente un mese fa son tornata dal mio secondo viaggio a Gaza. Questa
volta non c’era la l’emozione del
ritorno dopo tanto tempo. Ero già stata a febbraio scorso quindi per me era un
po’ un ritorno in un contesto che pensavo di conoscere.
Certo ogni volta decidere di partire per Gaza non
trova tutti consenzienti. Ma ho approfittato dell’ultimo scorcio di agosto
per andarci alla chetichella. Bene o male Gaza rimane una pericolosa area
in guerra, anche se “di bassa intensità”, come agli esperti piace chiamarla.
Il che significa che ogni giorno ci “scappa” qualche morto che non fa più
notizia, qualche bambino rimane ferito, in una stupida guerra di provocazioni
reciproche che può improvvisamente sfociare in un bombardamento “chirurgico”
detto anche “intelligente”, in una spirale che affossa la vita quotidiana
dei palestinesi, semina pianti, e “aumenta la sicurezza per Israele”. Una
pazzia. Una tranquilla pazzia che è diventata talmente normale da non fare
notizia.
Ecco
questo è qualcosa di cui vorrei parlare questa volta. Come si può vivere
“normalmente” in tale contesto. Come si può vivere - che poi significa
progettare il futuro - in un paese dove
la tua casa, faticosamente costruita con le tue mani e i tuoi risparmi può
essere distrutta da un bombardamento o da un buldozer per un motivo non
provocato dalle tue azioni, ma semplicemente perché sei li. E tu ti trovi a
ricominciare d’accapo, ricostruendo i muri, rifacendo le finestre, lì o
altrove. Ho fotografato molte case distrutte mentre mi chiedevo com’era la vita
lì dentro e dove fossero ora i suoi abitanti. Ho visto e fotografate case ricamate dai proiettili sparati dal
confine, che avevano il solo difetto di mostrare la loro facciata al muro. Mi
sono chiesta che significa dormire in una stanza ed essere raggiunta da dei
proiettili sparati dall’alto. Ho visto bambini giocare tra i resti di queste
case, a piedi nudi. Eppure, in una via appartata, accanto a una fila di panni
stessi, ho sorpreso due vecchi, un uomo ed una donna, seduti pacificamente a
chiacchierare. Normalità e pazzia.
Sto
perdendo tempo. Parlo di qualcosa di normale mentre si immagina Gaza con
combattimenti per strada, morti, fuoco e grida. No non è così. Il fuoco cova
sotto la cenere e la cenere è una vita quotidiana che fatica a tenersi insieme,
con 68% di uomini disoccupati o che si devono inventare ogni giorno un lavoro
per raccogliere due shekel per campare.
Una vita familiare che si tiene insieme a fatica: i bambini crescono per
strada, a branchi, le famiglie sono sempre più numerose (7-8 figli sono la
norma) ho visitato famiglie di 15-18 figli (naturalmente alcuni già sposati).
Le case sono praticamente solo stanze da letto e cucina e bagno. Il diwan si
trasforma la sera in una serie di materassi dove dormono gli abitanti della
casa. Anche la stanza dei genitori ospita figli a volontà.
Vita a
gaza. Per non parlare che questa vita normale si svolge in prigione. Già,
mettiamola come vogliamo, ma nessuno entra a Gaza se non è autorizzato dagli
israeliani. Gazesi, stranieri e abitanti di West Bank. Loro poi ancora meno. Ci
sono famiglie, divise tra Gaza e West Bank che non si vedono da anni. Mi diceva
una responsabile di Save the Children di Gaza che per far uscire un gazese da Gaza per trovare i suoi
parenti che vivono a Ramallah, aveva
dovuto ottenere l’autorizzazione a portarlo come interprete personale in West
Bank. Eppure Israele, quando si era “disimpegnato” da Gaza, aveva chiesto
all’ONU di riconoscere Gaza come indipendente. Quale paese o territorio è
indipendente se i suoi abitanti non possono uscire da nessuna parte? E’ da
aprile, dai giorni della guerra civile di Gaza, che anche il valico di Rafah è
chiuso e quindi chi deve uscire per motivi medici o solo per sposarsi in Canadà
o andare a studiare all’estero (esiste anche una borghesia gazese) non lo può semplicemente fare. E non sono esempi, sono casi
che mi hanno raccontato.
Possono
diventare tutte queste vessazioni normali? Può questa vita essere normale? A
Gaza si. Può la coscienza internazionale rimanere immobile e silenziosa di
fronte a tutti questi normali abusi? A quanto pare si. Cosa dire, fare
per risvegliare questa coscienza? Una situazione che non riesce a risolversi
dopo 60 anni viene abbandonata. Gaza diventa una no men (e no women e no children) land dove i diritti umani
vengono calpestati tutti i giorni.
Amen.
Scusate lo sfogo, ma erano un po’ i miei pensieri di fronte ad una situazione
normale. Per dodici volte mi sono seduta a terra nei salotti delle case dei
bambini feriti che ho visitato. Qualcuno spariva per andare a comprare delle
aranciate per noi (a febbraio arrivava il the o il caffè). Devo dire che non è
facile bere 5 o 6 aranciate in un pomeriggio e rifiutare è impossibile. Qualcun
altro andava a “mettersi bene” per fare bella figura. La visita di una
“straniera” non è un fatto di tutti i giorni ed io partecipavo volentieri al
gioco. Tanti sorrisi, occhiate, informazioni sulla famiglia, quanti sono stati
feriti, dove abitavano. Talvolta un’aia con dei pochi animali. Caldo, sempre
caldo. Talvolta un ventilatore veniva in aiuto. E poi la foto. Già lo scorso
febbraio io avevo deciso che non volevo fotografare le ferite dei bambini. Una
scelta etica. Non serve lo strazio di una ferita per aiutare una famiglia di 15
figli! Né per commuoversi (muoversi insieme, in sintonia). Basta visitare Gaza.
I bambini
feriti questa volta non erano tanto “bambini”. Molti sono stati feriti anni fa.
Uno a 21 anni è su sedia a rotelle, uno ha un arto artificiale, vari ,
nonostante siano stati feriti sul corpo, ora vivono normalmente. Tutti vanno a
scuola. (come da noi la scuola è anche una forma di disoccupazione occulta). Ho
visto vari ragazzi tra i 15 e i 17 anni: vanno tutti a scuola alle secondarie.
Molti poi probabilmente fanno dei lavoretti. I ragazzi che ho visitato questa volta (c’era solo una ragazza) vivono nell’area
di Rafah e Khan Younis, aree agricole
vicine al confine sud di Rafah. Da quando gli israeliani hanno lasciato Gaza,
lì non ci sono più particolari scontri, spari, distruzioni di case. Le case
distrutte (a centinaia) sono state in parte abbandonate in parte ricostruite.
Lungo il muro del confine (perché anche a Gaza esiste il muro che circonda
l’intero territorio) si è creata una zona vuota con i ruderi delle case.
Vivevano lì la maggior parte dei bambini feriti. Molti sono stati feriti mentre
giocavano. Magari facevano gli sberleffi agli israeliani e poi scappavano. E
sono stati colpiti. Molti alla schiena (compreso il ragazzo in sedia a
rotelle). Altri sono stati semplicemente feriti in casa, con altri membri della
famiglia.
Tutto
questo fa parte della normalità di Gaza.
Ma io ero
a Gaza per un altro motivo. Dovevo valutare la fine di un percorso di
formazione “di genere” per insegnanti
di scuola materna e madri di bambini. Il progetto più ampio che prevedeva la
sistemazione di 18 asili e la formazione delle loro insegnanti, prevedeva
per 50 di loro anche un percorso di
genere, per una educazione più egualitaria tra
bambini e bambine, a scuola e a casa.
Avevo
ricevuto pessime notizie: i corsi erano partiti solo a metà giugno, la
formatrice con la quale avevamo impostato il corso di empowerment, di rafforzamento, delle donne non aveva potuto tenerlo
perché chiamata a dirigere il Centro di Donne: la direttrice stessa era rimasta
bloccata in West Bank causa la chiusura del confine di Heretz per gli scontri.
Il corso era stato tenuto da una avvocata, impegnata sulla difesa dei diritti
delle donne. Il corso poi di secondo livello, per preparare le donne a tenere a
loro volta dei corsi alle colleghe e alle altre madri, era in parte stato
tenuto da un uomo (come può un uomo condurre un corso per formatrici “di
genere”? Insomma ero abbastanza preoccupata e non molto ben disposta. Per
questo avevo deciso, prima di parlare con gli operatori, di incontrare alcune
donne, madri insegnanti, che avevano partecipato al corso. Una sorpresa! Erano
tutte infervorate. “Non sapevo che come donna avevo dei diritti”, “quando sono
tornata a casa ho parlato con mia madre e le mie sorelle delle cose che
dicevamo”, “ho scoperto che la mia
situazione era simile a quella delle altre donne e noi dobbiamo fare qualcosa
per cambiarla”. Un’altra donna di 21 anni, 4 figli, ha detto, “ho deciso di
riprendere a studiare e finire le scuole, e mio marito è d’accordo”. Un’altra a
49 nove anni ha detto che vuole trovare un lavoro. Insomma una vera e propria
sorpresa. Il corso le aveva fatto guardare alla loro condizione con occhi nuovi
e desiderare di cambiarla. Molte hanno detto come la loro condizione si
rifletta sui bambini e quindi loro
devono stare meglio per far star meglio i loro figli (e figlie). In questa
occasione ho scoperto che la maggior parte dei matrimoni sono combinati dalle
famiglie. Che la donna ben presto (talvolta 16, 17 anni) si trova già sposata e
ben presto diventa una “produttrice di figli” . Di pianificazione familiare non
si parla, soprattutto tra i meno abbienti. Solo chi ha studiato all’università
si ferma sui 3 o 4 figli. Quindi già l’istruzione contribuisce a una forma di
pianificazione familiare.
Infine due
righe solo sul riverbero della politica nella vita quotidiana, senza voler
entrare nel merito anche se il tema meriterebbe uno spazio maggiore ed
un’analisi più articolata.
Gaza, come anche la West Bank è una realtà
molto politicizzata. Ovviamente. Avere il nemico sul collo non consente di
pensare alla raccolta di francobolli o di farfalle, all’arte o alla musica
(anche se alcuni lo fanno, magari per igiene mentale) o anche solo
lavoro-casa-famiglia-tv . Però schiaccia l’analisi politica. Gaza vive di aiuti
e il rubinetto degli aiuti sta nelle mani o degli “internazionali”, ONU e
Unione Europea in testa (ma ci sono anche,
per dire, giapponesi) o dei “politici” (quindi Fatah o Hamas) o dei
“religiosi” (molti soldi dei paesi arabi o islamici passano per le moschee).
Questo crea una dipendenza psicologica, una guerra per afferrare alcuni dei
benefici disponibili, spesso buoni stipendi per chi lavora con gli
internazionali, una affiliazione politica “interessata” e un nuovo potere
economico del “potere religioso”.
In questo
quadro vanno inseriti gli scontri feroci tra Fatah e Hamas di questa passata
primavera. Ne parlano tutti sottovoce, chi con dispiacere (siamo arrivati a
combatterci tra noi mi ha detto sconsolata un’insegnante); chi con sfiducia,
chi con timore, chi con spirito di affiliazione (sui tetti delle case
sventolano molte bandiere di Fatah o di Hamas).
Solo in
questo quadro si spiegano anche i cambiamenti di
atteggiamento che si possono vedere a Gaza. Un dibattito politico faticoso e
molto polarizzato. Un aumento, praticamente totale, di donne velate e anche
totalmente coperte (occhiali a parte), un arretramento culturale sul piano
delle libertà delle donne, un aumento della sfiducia della gente normale nei
confronti dei politici e un ripiegamento sul “privato”, sulla ricerca della
sopravvivenza della propria famiglia in un contesto vissuto come pericoloso,
senza sbocchi e speranza. La società civile fatica ad organizzarsi. Chi si
organizza lo fa perché finanziato e si trasforma in “terziario sociale”, tipico
di questa fase di neoliberismo globalizzato, continuamente in sostituzione con quelli che
dovrebbero essere i compiti di una pubblica amministrazione.
Del resto
il potere politico può far girare le ruote dell’amministrazione solo se
finanziato, non esiste praticamente raccolta fiscale salvo l’Iva che viene
raccolta da Israele (e che non versa all’amministrazione palestinese). Succede
quindi che gli impiegati pubblici (tutto sommato dei privilegiati che hanno un
lavoro) non ricevano lo stipendio: così la spazzatura si accumula a 40°
all’ombra negli angoli delle strade per giorni, gli uffici pubblici chiudano, i
vigili degli incroci facciano sciopero con ingorghi che vengono superati in modo
creativo dalle macchine, gli insegnanti facciano sciopero, le scuole si
chiudano e così via. Insomma una vita quotidiana difficile e imprevedibile.
Ma tutti resistono. Tutti in qualche modo se
la cavano. Chi non ha un soldo, riceve una borsa alimentare dagli
internazionali, i bambini vanno nelle scuole dell’Unrwa o nelle moschee, gli
uomini si propongono per lavoretti, agli angoli delle strade dei ragazzini
vendono sigarette e la vita continua. Ogni tanto in lontananza degli spari.
E a Gaza
la vita continua, in un clima di normalità in bilico, fino al prossimo scontro,
fino a domani e a domani.
Uscendo da
Heretz (tre ore e tutti i pezzi del
bagaglio da rimettere insieme sotto gli occhi divertiti e compiaciuti di
ragazzotti israeliani, anche loro precari di una società di sorveglianza) mi
sono lasciata alle spalle la gente, infinite storie di vita, amore e odio, un
territorio piatto e sabbioso che dovrebbe continuare verso il Sinay, ma è
bruscamente interrotto da un muro, una spiaggia sabbiosa che potrebbe essere
meta di alberghi e resorts di lusso, il narghilè fumato in spiaggia con le
amiche chiacchierando di tutto, il mercato, i ragazzini vocianti per le strade
o ripuliti con le cartelle e i grembiuli mentre vanno a scuola , insomma una
società che vive, spera e si dispera.
E noi?
4 ottobre 2007