II Incontro nazionale degli aderenti a Gazzella

Sala del Carroccio, Campidoglio, Roma, 12 aprile 2003

 

Per leggere l'intervento cliccare sul nome:

Francesca Bettini

Ennio Polito

Maria Grazia Terzi

Germano Delfino

Agnese Manca

 

1. Francesca Bettini

Anzitutto grazie a voi per essere qui, per aver risposto in modo entusiasta ad una necessità comune.

A poco più di un anno dal primo seminario, abbiamo sentito l’esigenza di rinnovare un’occasione di incontro tra tutti coloro che aderiscono a Gazzella.

Personalmente ritengo che ormai la comunicazione tra persone è sempre più mediata da macchine.

E’ ‘globale’, essenziale, rapida.

Senza negare gli indubbi vantaggi, si sconta, però, una sorta di mancanza di emozione.

Sicché nasce il bisogno, ma anche la richiesta, di visibilità (che è sinonimo di trasparenza).

E’ fondamentale conoscersi, comunicare attraverso i ‘corpi’, in specie lavorando in un progetto che - oltre a testimoniare solidarietà ad un popolo resistente - cerca di sanare corpi che sono stati negati perché feriti, mutilati.

Dovendo riferire un bilancio sommario di questi due anni di attività, non posso fare altro che sottolineare due eventi che hanno marcato il nostro procedere.

Il primo — luttuoso — ovvero la perdita di Marisa Musu, fondatrice e — direi — cuore pulsante di Gazzella, l’altro che - pur nel contesto di una occupazione e colonizzazione della Palestina sempre più spietata — ci rende orgogliosi del nostro lavoro. Ovvero la crescita di Gazzella, al di sopra delle nostre migliori aspettative.

Nel novembre del 2000, all’inizio della nostra ‘impresa’, gli aderenti erano circa una trentina. Per lo più amici che conoscendo il passato, la militanza e il rigore politico di Marisa, si erano associati prontamente a questa sua ultima fatica.

Il suo nome era al tempo stesso un manifesto e una garanzia.

E lei — per me — era una fonte di pratiche dalle quali trarre insegnamento.

In questi due anni ci siamo impegnati (ognuno al suo meglio) per il progresso di Gazzella.

Ma si è verificata anche quella che definirei una reazione a catena, un passa parola, una lievitazione naturale, come spesso accade nelle associazioni che nascono dal basso, che hanno come motore propulsore la coscienza della società civile.

Oggi gli aderenti sono più di 500, (altrettanti i bambini affidati) distribuiti su tutto il territorio nazionale: dalla Sicilia a Bolzano, oltre confine, in Svizzera ed Olanda.

Non solo singole persone o gruppi (magari di amici e/o colleghi) formatisi per l’occasione, ma anche organismi, istituzionali e non.

Ad esempio — ne cito solo alcuni - il Comune di Castellina in Chianti, quello di S.Croce sull’Arno e quello di Fiumicino, che hanno deliberato cospicui stanziamenti che ci hanno permesso sia di affidare un numero considerevole di bambini sia di acquistare presidi per bambini resi disabili da proiettili israeliani sparati alla spina dorsale o agli occhi.

Moltissime sono le scuole, di ogni ordine, e grado.

Grazie ad alcuni ‘valorosi’ e operosissimi insegnanti hanno non solo sottoscritto ma anche ‘pubblicizzato’ Gazzella sensibilizzando i propri alunni sulle vicende tragiche della Palestina.

Ancora: Associazioni culturali, Forum Sociali cittadini, Circoli Arci e Legambiente, strutture sanitarie (come il Centro Trasfusionale dell’Ospedale di Civitanova Marche), gruppi di iscritti ad associazioni Sindacali come la CGIL ed altri, sezioni locali di partiti politici, come i Ds di Civitanova Marche e le compagne del gruppo di Rifondazione Comunista, qui, al Comune di Roma che ringraziamo nuovamente per l’ospitalità.

Voglio ricordare anche le donazioni fatte da privati cittadini, ma anche da associazioni, come l’ANPI nazionale e provinciale.

Altra cosa che mi preme sottolineare è che uno dei nostri obiettivi fondanti, ovvero riuscire a costruire un progetto politico che non si cristallizzi in una struttura rigida ma che, invece, evolva in una rete fra persone accomunate dagli stessi scopi, si è realizzato, di fatto, in modo spontaneo.

Sono nati coordinamenti locali di Gazzella in Veneto, Toscana, Campania e Lazio per iniziativa di singoli ‘adottanti’ che poi proprio come coordinamento hanno fatto diffusione al loro massimo e raccolto fondi nel modo più vario: in occasione di feste di partito, organizzando serate a tema, mostre pittoriche.

Fra loro e noi si è stabilito un filo diretto, fatto di scambio di esperienze e di idee per disegnare assieme le prospettive future.

Ora non vorrei che i miei toni appaiano troppo trionfalistici. Dobbiamo affrontare una serie di piccoli/grandi problemi di percorso: siamo pochi, volontari, abbiamo lavori ‘ufficiali’ per vivere e dunque poco tempo a disposizione.

I nostri mezzi sono esigui e i canali di comunicazione limitati.

Inoltre — come ricordava sempre Marisa — bisogna considerare il fatto indiscutibile che l’adozione a distanza di un bimbo palestinese è una adozione ‘difficile’, perché non è facile mantenere il contatto fra adottante e adottato, perché è in atto un tentativo di liquidazione di un intero popolo.

Dico questo per giustificare eventuali discrasie fra noi e voi. A volte ci troviamo nell’impossibilità di rispondere adeguatamente alle aspettative e alle richieste esterne, come ad esempio una maggiore funzionalità organizzativa, oppure partecipare ad incontri e dibattiti.

Ma speriamo di crescere e migliorare anche in questo, magari con il vostro aiuto.

Un brevissimo accenno in chiusura ai periodici viaggi fatti in Palestina (ne parlerà Agnese che ringraziamo per l’impegno indefesso) per consegnare direttamente ai bambini il denaro raccolto.

I nostri volontari si muovono in una realtà desolante, ma hanno il coraggio e la tenacia propria di chi sa che sta facendo la cosa giusta.

A questo proposito voglio concludere dicendovi che nell’eticità di questo fare comune, io ho la riconferma - ancora di più in questi giorni di mobilitazione contro la guerra all’Irak— che nessun uomo è un'isola, intera in se stessa, ma è un pezzo del Continente, una parte del Tutto.

Grazie

inizio pagina [] indice

2. Ennio Polito

L’OMBRA DELL’IRAQ SULLA PALESTINA RIOCCUPATA

C’è una parentela molto stretta, ineludibile, tra l’atto di "guerra preventiva" lanciato dagli Stati uniti contro l’Iraq, senza legittimazione alcuna ma con schiacciante superiorità di mezzi, e l’ininterrotto sostegno da loro stessi prestato al progetto di sopraffazione israeliano in Palestina.

Come essa si esprimerà sulla scena internazionale non è ancora possibile dire. Ma si è già espressa sinistramente in una cifra: settanta morti palestinesi nelle prime tre settimane di guerra contro l’Iraq. Le notizie che vengono dalle città palestinesi rioccupate hanno una loro inaccettabile eloquenza. Nella striscia di Gaza le case palestinesi demolite dai soldati israeliani sono centinaia e la lotta per far cessare questa aperta violazione dei diritti umani ha già le sue vittime tra gli osservatori.

Voglio qui ricordare l’americana Rachel Corrie, stritolata da un bulldozer militare israeliano mentre si opponeva a questa pratica indegna. Mi sembra giusto farlo anche e soprattutto perché il sacrificio di Rachel testimonia il rifiuto della legge del più forte, così cara al presidente Bush, e una appassionata scelta a favore dei bambini indifesi - i nostri bambini di "Gazzella"- anche e soprattutto perché ci chiama a constatare che le armi americane eliminano, insieme con i presunti terroristi di Hamas, gli stessi cittadini di quello che mezzo secolo fa si definiva "il mondo libero".

Non senza emozione e non senza un senso di forte ribellione leggiamo testimonianze dirette difficilmente compatibili con quella immagine. Una collaboratrice del Maariv, uno dei quotidiani israeliani più diffusi, racconta ciò che ha visto nel campo profughi di Rafah assediato, dove è giunta sotto un’identità di comodo (dal momento che un giornalista israeliano non è ammesso nei territori rioccupati, mentre può esserlo una giornalista francese) e dove ha vissuto ventiquattro ore sufficienti per "cambiare una vita": "un inferno", riassume nel suo reportage "…un posto dove non si smette mai di sparare, dove le granate fischiano dalle finestre, i muri sono coperti di chiazze di sangue, le case cadono a pezzi e la gente va per strada scalza e disperata"; dove nelle case di frontiera, la cui demolizione è in programma ma non per l’indomani, risuonano assieme il pianto dei neonati e il fragore di terrorizzanti esplosioni .

Secondo cifre della Banca mondiale, alla fine del 2001 il 45,7 per cento dei palestinesi erano scesi sotto la linea di povertà; quasi il doppio del livello (il 23,2%) di fine ’98. Alla fine del 2002, si toccava il 59,9 per cento.

La situazione che si è delineata con l’attacco all’Iraq, è detto in un appello firmato da oltre centocinquanta accademici israeliani, è tale da richiedere uno sforzo congiunto per salvare, insieme, Israele e Palestina. Sotto questa parola d’ordine, i firmatari chiedono ai loro colleghi in tutto il mondo di solidarizzare.

Dovremmo chiederci seriamente se il successo - se di successo, nelle circostanze date, si può parlare - della spedizione neocoloniale a Baghdad offra davvero, di per sé, la chiave per la soluzione pacifica di una vertenza tra le più inique della storia. Un Bush finalmente libero da confronti con le ragioni degli alleati, finalmente in grado di misurare con il metro della Nato il loro zelo sarà un Bush più efficiente di quello che ha contribuito, insieme con una folta schiera di predecessori, a impedire che dall’esito della "guerra dei sei giorni", trentasei anni fa, si sprigionasse una dinamica positiva? Lo aiuterà la sua ostinata reinterpretazione della situazione medio-orientale, conforme alla visione del "terrorismo internazionale" come nemico storico? Ne dubitiamo fortemente.

Rileggiamo il suo discorso del 24 giugno 2002 e le indicazioni offerte dal dibattito americano sulla sua genesi. Una settimana prima, il discorso è già pronto e programmato. Il momento è quello immediatamente successivo all’assedio e alla distruzione del quartier generale di Arafat, a Ramallah, quando è sembrato che il primo ministro israeliano, Sharon, stesse per realizzare l’assassinio del suo interlocutore palestinese e una soluzione a senso unico del problema territoriale. Va ricordato che Sharon persegue da sempre un disegno incompatibile con il negoziato: la pace verrà, egli sostiene, quando i palestinesi saranno stati irreversibilmente sconfitti e rinunceranno alla lotta; non importa quanto tempo sarà necessario. Arafat ha inscenato, invece, un grande ritorno politico sulla base di un memorandum che accetta la discussione anche sulle critiche che gli vengono mosse: ambivalenza nell’alternativa tra negoziato e lotta armata, potere personale, corruzione. E’’ pronto anche a fare un passo indietro, accettando la creazione di una figura di primo ministro, nella persona di Mahmud Abbas (Abu Mazen) anziano esponente dell’Olp, di tendenza moderata, in buoni rapporti con Sharon. I passi di Arafat, illustrati da uno dei suoi ministri, sono giudicati "incoraggianti " dal Dipartimento di Stato. A questo punto, Sharon fiuta il peggio: si precipita a Washington e riapre il dibattito tra i grandi burattinai dell’amministrazione Bush.

Il discorso di Bush viene rinviato e riscritto secondo le esigenze del visitatore israeliano. "La mia visione ", dice il presidente, "è di due Stati che convivano l’uno accanto all’altro in pace e sicurezza. Non c’è maniera possibile di conseguire la pace se le due parti non combattono il terrore". Ma in questa retorica sfumano gli uni dopo gli altri gli elementi di novità che avevano indotto il cosiddetto "quartetto" del Consiglio di sicurezza dell’Onu ( insieme con gli Stati uniti, l’Unione europea, la Russia e le Nazioni unite) a giudicare in movimento la scena israelo-palestinese. Il futuro Stato palestinese è curiosamente definito provvisorio. In un editoriale, il New York Times si chiede come i palestinesi possano portare a termine il loro programma, restando imprigionati nel sistema di gabbie territoriali in cui Israele li costringe. E come si può conciliare l’esigenza assoluta di una nuova leadership con quella di un voto "libero"?

Gli Stati uniti hanno pubblicato la loro versione della "mappa stradale". Il calendario prevede tre fasi. La prima include la fine della violenza e del terrorismo, la seconda prevede una verifica della situazione in una conferenza internazionale e, se possibile, una serie di altre tappe fino all’insediamento di uno Stato con confini provvisori, entro il dicembre 2003. La terza fase prevede una seconda conferenza internazionale per sanzionare il progresso compiuto e la normalizzazione con Israele, entro il 2005. Il rigetto di Israele non si è fatto attendere. Di più: Sharon, lungi dallo smobilitare l’apparato repressivo deciso in crescendo al suo ritorno da Washington, forza ancora, lasciando aperte le porte a un nuovo esodo.

Il leader del "Blocco della pace" israeliano, Uri Avnery ,commenta la pubblicazione della "Mappa" in un articolo intitolato "Mappa di una strada che non va in nessun posto, ovvero molto rumore per nulla" . Sarebbe un documento importante, scrive, se non ci fossero molti "se", a partire dalla disponibilità delle parti a un onesto compromesso, dalla disposizione di Sharon e soci a restituire la terra e degli americani a premere su Israele. Tutto questo "appartiene a un mondo immaginario". Il giudizio ha un suo risvolto se si distingue tra gli obbiettivi e il modo di realizzarli: gli obbiettivi sono ottimi il che significa che sul da farsi esiste un’inedita maggioranza.

Grazie

inizio pagina [] indice

3. Maria Grazia Terzi

Parole per Ahmed (a proposito del rapporto tra affidatari e bambini)

custodite da tanto, scritte il 9 di aprile del 2003.

Salam aleicum,

mi chiamo Maria Grazia Terzi, quasi 43 anni, laureata, medico, ho una sorella di 31 anni.

Cosa ci mette in contatto?

Qualche tempo dopo che la campagna era stata lanciata, ad un certo punto ho aderito all’invito di "per Gazzella" di aiutare una bambina o un bambino palestinese ferita/o.

Ho deciso, era una cosa che volevo fare, che sentivo di dover fare.

Prima asimmetria: io -illesa e al sicuro- al centro dell’azione.

Marisa, proprio Marisa che tanto ci manca, mi ha scritto di te dopo qualche mese: Ahmed Sabri Abu Musa, 13 anni ferito, alla gamba sinistra. Ha finito le scuole secondarie, ha due fratelli e tre sorelle. Proseguirà gli studi alla scuola coranica. E insieme a queste notizie essenziali, ho ricevuto due foto: così ti ho visto Ahmed Sabri Abu Musa, figura intera e primo piano.

Seconda asimmetria: io ti vedo non vista.

Benvenuto Ahmed, ragazzo, sorriso appena abbozzato, sguardo aperto e severo. Tu, vestito di bianco, al centro della foto. E i miei pensieri intorno a incorniciarti, sfumando i palmizi del giardino alle tue spalle e la sabbia del cortile sotto i tuoi piedi. Scuola, ah bene. Prosegue gli studi, benissimo! Scuola coranica. Coranica. Bene, mi dicevo "che c’è di strano? anche in Italia ci sono molte scuole religiose. Tu preferisci un insegnamento laico, fornito a cittadine e cittadini dallo Stato, ma l’importante è studiare".

Bei pensieri, belle parole. Avercelo uno Stato per esserne cittadino! Questo il punto.

Terza asimmetria: io cittadina tu no.

Ho risposto, mesi dopo, a una seconda lettera di Gazzella dicendo che ti volevo scrivere, se qualcuno mi avesse tradotto. Risposta: "scrivere al bambino è praticamente quasi impossibile, non esistono vie numeri civici nel campi profughi e poi adesso con la situazione catastrofica che stanno vivendo...". Già, potevo arrivarci da sola.

Asimmetria che riassume le precedenti: io nella civiltà del benessere e dell’abbondanza tu no.

Una vita ordinata e prevedibile, la mia. E la tua? occupata.

Com’è un giorno dei tuoi, e quello che lo segue. Il tuo tempo, è tuo?

Che rapporto può esserci tra me affidataria e te? Che cosa ci terrà in contatto?

All’inizio del 2003 arrivano tue notizie! Grazie al cielo! Il cielo? Grazie, sì non so chi ringraziare, ma grazie che sei vivo, nonostante quel che succede in Palestina. Scopro che sei grande ormai, provvedi a te con piccoli lavoretti, intanto studi. Tuo padre paga la retta all’Università. Università statale, Facoltà di lettere. Della ferita alla gamba non si parla più, tuttavia "per Gazzella" ha ritenuto opportuno offrirti ancora un modesto aiuto. Hanno interpretato benissimo il mio pensiero: guarire dalle ferite di guerra non basta. La letteratura e la poesia siano con te per sempre.

Con queste ultime notizie arriva anche un’altra fotografia: una nonna, la madre di tuo padre, tua sorella Amal e due tuoi nipoti. Sono contenta di sapere che non sei solo, che ti vogliono bene. E insieme penso alle tue preoccupazioni per loro, alle difficoltà che si sommano alle mille impensabili (per me che vivo "al sicuro") difficoltà delle persone che vivono sotto occupazione. Tu non ci sei nella nuova foto, ma io ti immagino in relazione a loro.

E saperti cresciuto e adulto, improvvisamente mi riempie di gioia e di fiducia, anche se non ci conosciamo, se poco sappiamo l’uno dell’altra, anche se le mie parole, i miei pensieri, le mie congetture sono e saranno sempre imperfette. Perdona se dico gioia e fiducia, in giorni di guerra e di lutto per molti. Ma voglio pensare a te con gioia e fiducia.

Tu sei guarito, tu vivi e tanto mi deve bastare. Ogni altra cosa: come vivi, per cosa vivi, che farai del tuo futuro sono tutte cose preziose nelle tue mani, e così dev’essere. Grazie alle persone che hanno costituito "per Gazzella" ho potuto aver una piccola parte nella tua storia: volere in modo incondizionato la guarigione dopo l’offesa, la ferita e il pericolo.

Grazie, per non avermi sottoposto ad alcun esame di idoneità per accettare il mio aiuto.

Con i miei migliori e sinceri auguri per il futuro, ti saluto Maria Grazia.

inizio pagina [] indice

4. Germano Delfino

La mia esperienza con Gazzella Onlus: un bilancio

Carissimi,

innanzitutto vorrei scusarmi con i presenti per non essere potuto intervenire di persona a portare la mia testimonianza di sostenitore a distanza di un bambino palestinese dei campi profughi di Gaza.

Destino infame quello mio, ma improrogabili motivi familiari mi impediscono di essere in mezzo a Voi tutti oggi, così come la volta scorsa nella ridente cittadina di Castiglioncello quando a presiedere l’incontro-seminario c’era anche Marisa Musu a cui va il mio, ma immagino anche il Vostro, pensiero.

Non è facile scrivere della mia esperienza di sostenitore a distanza, quando ci si sente impotenti di fronte alla furia di una guerra assurda ed ingiusta che oltre a cancellare per sempre ogni cosa trovi sul suo truce cammino, trascina con se le speranze e le vite di intere popolazioni di cui i bambini sono la componente umana più importante perché indicano il futuro.

Non è affatto facile parlare del mia esperienza con Ghassan Farid Faris Barbakh del campo profughi di Khan Yunis, perché paradossalmente rispetto ai suoi fratelli arabi iracheni che stanno soffrendo e morendo sotto bombe dette intelligenti, egli, in questo momento, è più fortunato.

E’ triste, non credete? Pensare che un bambino palestinese di 10 anni a cui la sorte, ma soprattutto la forza bruta delle armi, ha riservato una vita di sofferenze a partire dalla scheggia che ancora è conficcata nella sua spina dorsale e che non si sa come estrarla, nonostante tutto debba sentirsi più fortunato di un suo coetaneo iracheno che in questo momento sa soltanto che riuscirà a vivere a patto che non si trovi sulla traiettoria delle bombe intelligenti, di quelle a grappolo, degli effetti collaterali e delle mine anti-uomo!

Ho un concetto molto alto della solidarietà e di chi si prodiga in favore di chi è stato meno fortunato di noi. Proprio perciò ammiro con forza il lavoro di queste meravigliose persone come Agnese, Antonella, Edoardo, Francesca e soprattutto la compianta Marisa che anche grazie alla sua esperienza di persona che aveva vissuto da protagonista una guerra d’occupazione, credo riuscisse meglio a trasmettere agli altri come leggere nei cuori e nei volti dei palestinesi che aiutava a Gaza, la sofferenza, la disperazione, la rassegnazione. Ho citato loro perché sono i nomi che più ricorrono nelle lettere che periodicamente ricevo e che mi aggiornano sullo stato di salute di Ghassan, ma è chiaro che il discorso è valido anche per tutti gli altri volontari che non conosco e che con coraggio non comune animano in Italia ed in terra di Palestina le attività di Gazella Onlus.

Da quando ho accettato di vivere quest’esperienza, molte cose sono cambiate nel modo di concepire l’affetto per una persona in difficoltà che per altro vive a migliaia chilometri di distanza, con cui non posso comunicare un po’ perché parla un altro idioma e un po’ perché la democrazia cingolata israeliana gli ha distrutto ogni forma di mezzo di comunicazione.

Immagino di incontrare anche il Vostro sentimento quando dico che ogni volta che sento/leggo di disordini e morte di bambini nei territori occupati, nel mio caso a Khan Yunis, il pensiero corre sempre a Ghassan e non Vi nascondo quanto sia atroce per me dover sperare che tra quei bambini non ci sia lui. Nell’ultimo colloquio telefonico avuto con Marisa, mi disse che già 3 bambini assistiti da Gazella Onlus erano stati assassinati dell’esercito israeliano e la cosa mia ha turbato non poco.

Credetemi, oggi non è facile fare solidarietà seriamente. Nonostante la buona volontà di pochi, ho come la vaga sensazione che la gente accetti ancora di fare della beneficenza per sentirsi a posto con la coscienza di cittadino del Nord del mondo per proteggere la sua opulenza, a scapito delle popolazioni del Sud del mondo. Un po’ come quando si ritiene di aver commesso un peccato, si va in chiesa, ci si confessa e con la promessa di un padre nostro e di un ave maria si spera nell’ego te absolvo del curato.

E’ francamente inconcepibile che si permetta ai pubblicitari ed alle aziende commerciali di sfruttare il tema della solidarietà per incrementare le vendite di un determinato prodotto. Mi e Vi chiedo: ma è ammissibile far passare il messaggio per cui basta acquistare un fustino di detersivo o una t-shirt per fare della solidarietà? Io credo di no ed ecco perché ho scelto di sostenere Gazzella Onlus ed il suo progetto!

Un anno e mezzo fa, circa, sollecitato dalla tragica situazione nei territori occupati, mi sono deciso ad aderire all’iniziativa Per Gazzella che all’epoca, se non ricordo male, era gestito con la collaborazione del Coordinamento Genitori Democratici. Le brevi interlocuzioni avute con Marisa Musu, che con molto garbo ha più volte alzato il telefono per spiegarmi il progetto in ogni suo dettaglio, mi hanno fatto capire l’importanza dei sacrifici, fisici e finanziari, a cui i volontari di Gazzella vanno incontro per portare un sostegno materiale ed un conforto umano a gente che forse ha anche perso fiducia nel proprio sorriso.

Al di là delle prime informazioni ricevute sul bambino, di cui ho saputo quasi subito nome, età e luogo di residenza, il coinvolgimento emotivo è stato immediato. Per prima cosa ho provato ad immedesimarmi in quelle che potevano essere le condizioni di vita di Ghassan, cercando di capire dove e cosa fosse Khan Yunis.

In questo devo essere grato una carissima amica che opera a Gaza per conto di una Ong italiana e che ad una mia precisa domanda su come si vivesse a Khan Yunis, mi prima ha risposto con un lungo silenzio e poi non potendo più tacere mi ha rivelato, quasi con un filo di commozione, che quello è il posto più infernale che abbia mai visitato, dove le macerie superano di gran lunga le case rimaste in piedi e la disperazione della gente va al di là di ogni possibile immaginazione.

Che queste informazioni fossero reali, ne ho avuto coscienza dopo qualche mese quando ho ricevuto le prime notizie più approfondite sul bambino. Ghassan, 10 anni, è stato ferito all’addome, sotto l’ascella sinistra. Per molto tempo ha vissuto con un proiettile in corpo poiché i medici del Medical Relief di Gaza giudicavano troppo pericoloso estrarglielo. Dopo un tentativo andato a vuoto di portarlo ad operare opportunamente e paradossalmente negli Usa ed uno in Egitto che ha avuto identica sorte, detto proiettile gli è stato finalmente tolto lo scorso anno in Spagna all’Ospedale Universitario di La Paz, nei pressi di Madrid .

Ho detto opportunamente perché gli stessi medici di Gaza da subito avevano valutato l’estrema difficoltà e pericolosità dell’operazione per essere svolta in quei luoghi, e paradossalmente perché Ghassan avrebbe corso il rischio di andare ad operarsi nello stesso paese, gli Usa, dove verosimilmente era stata prodotta la pallottola che l’ha ferito quasi mortalmente.

Tuttavia i guai non sono finiti, poiché nello stesso frangente non è stato possibile estrargli un’ulteriore scheggia di proiettile attualmente allocata pericolosamente nei pressi della spina dorsale ed i rischi che comporta un’operazione non sono minori di quelli della precedente. Purtroppo, quindi, gli spagnoli non sono riusciti a ripetere il miracolo.

Ghassan è stato ferito nel novembre del 2000 durante il funerale di tre giovani uccisi il giorno precedente ed era appena uscito da scuola. Ha altri quattro fratelli e tre sorelle. Suo padre faceva l’edile in Israele e adesso è disoccupato.

Di fronte a questa situazione non me la sono sentita di rimanere fermo alla fredda donazione mensile che è si importante, anzi, decisiva, ma che incide solo economicamente sulla vita di Ghassan e della sua famiglia. Allora, sfruttando la grande sensibilità dei governanti della mia regione per il problema palestinese, ho cominciato a scrivere a tutte le autorità più importanti della Regione Campania raccontando loro la storia di Ghassan e delle sue traversie cliniche.

Risposte immediate non ne ho avute, ma, come qualcuno sa già, lo scorso febbraio sono stato contattato dall’Assessore all’Istruzione del Comune di Napoli, Raffaele Porta, a cui avevo scritto e che ha dalla sua il merito di aver portato a Napoli diversi bambini palestinesi dei campi profughi affetti da gravi patologie cardiache curate poi con successo negli ospedali campani.

L’idea che già altri bambini palestinesi avessero avuto la possibilità di essere curati a Napoli, mi ha spinto ad insistere presso il suddetto assessorato affinché anche il caso di Ghassan venisse preso in considerazione.

Mai tanta ostinazione fu premiata. Attualmente il caso è all’esame degli esperti medici a cui ho fatto pervenire la documentazione clinica richiestami e sono in attesa di comunicazioni importanti..

Cos’altro dire se non che per me questo è già un successo, anche se parziale, ma che non posso non condividere con tutti i volontari di Gazzella Onlus che mi hanno aiutato e con Marisa Musu che fino a qualche giorno prima di morire si è impegnata, forse con le sue ultime forze, per farmi avere da Gaza una copia della cartella clinica affinché anche Ghassan potesse avere una possibilità ed almeno la sua sofferenza fisica in breve tempo essere un brutto ricordo di un’infanzia troppo presto rubata .

Il merito più grande che mi sento di dare a Gazella Onlus ed a tutti i volontari che la animano è di avermi trasmesso quella carica di umanità che oggi mi fa sperare che anche grazie al mio impegno, Ghassan ce la potrà fare.

RingraziandoVi per la pazienza che avete avuto nell’ascoltare, vorrei lasciare la conclusione di questa mia memoria alle belle parole di Rachel Corrie, la pacifista statunitense schiacciata senza pietà dai bulldozer israeliani mentre tentava con la forza della non violenza di impedire la demolizione di una casa, tratte da una e-mail inviata da Rafah ai genitori, pochi giorni prima di morire:

"Io non so se molti dei bambini qui abbiano mai vissuto senza buchi dei carri armati alle pareti e senza le torri di un esercito di occupazione che li sorveglia costantemente da un orizzonte vicino. Io penso, sebbene non sia del tutto sicura, che anche il più piccolo di questi bambini capisce che la vita non sia così ovunque."

Grazie

inizio pagina [*] indice