ottobre 2007
Cari amici di
Gazzella,
anzitutto mi
presento: mi chiamo Francesco, ho 27 anni, sto per laurearmi ed ho già
trascorso due passate estati in un campo di lavoro in Palestina. Questo è il
resoconto del mio terzo viaggio, il primo che ho intrapreso come volontario
dell’associazione, una sorta di piccolo diario.
Purtroppo non ho potuto raggiungere
Le famiglie hanno ricevuto due rate di aiuti
economici dalla nostra associazione, l’ultima delle quali all’inizio di
quest’anno. L’aiuto di Gazzella è un piccolo aiuto ma estremamente importante.
Molte famiglie sono riuscite a pagarsi le spese sanitarie e riescono a sopperire
alla mancanza di lavoro e di cibo grazie anche al nostro sostegno.
Fondamentale, ovviamente, è anche la presenza
fisica sul territorio, mia stavolta, ma soprattutto dei volontari che mi hanno
preceduto, di cui peraltro molte famiglie mi hanno chiesto notizie, a riprova
del legame di stima e di affetto che si viene a creare. Le visite alle singole
famiglie dei bambini feriti rappresentano un atto di solidarietà politica, ma
soprattutto umana, esteso a tutta la popolazione palestinese che soffre guerra
e occupazione da quasi 60 anni.
Dal mio punto di vista, comunque, ogni
famiglia con l‘accoglienza che mi ha riservato, i sorrisi e la forza di spirito
mi ha donato certamente più di quanto io potevo donare loro con la mia
presenza. Potrà apparire una riflessione banale, ma è significativa di tutto il
viaggio che ho compiuto nei Territori Occupati.
Nablus
Il mio ‘giro’
è iniziato dalla città di Nablus e più precisamente dal check-point di Huwwara,
principale ingresso alla città. Ho superato il check-point con facilità e
quindi ho atteso i responsabili del Medical Relief con i quali avrei iniziato
le visite alle famiglie. In 2 giorni abbiamo visitato 14 bambini sui
La situazione
di Nablus mi è apparsa come la peggiore della Cisgiordania, sia per quanto
riguarda la situazione dei bambini adottati, sia per il livello d’assedio cui
la città è sottoposta quotidianamente. In tre giorni di permanenza sono stato
testimone di tre incursioni dell’esercito. L’ultima, e la più pesante, è
avvenuta di notte. L’esercito ha messo sotto assedio il campo profughi di Al
‘Ain, usando l’artiglieria pesante; nel corso degli scontri è rimasto ucciso il
capo locale del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP). Per più
di tre ore, ovvero dalle 2 del mattino fino all’alba, la città sembrava sotto
bombardamento. La mattina seguente è stato per me sorprendente notare che molti
abitanti della città avevano appreso la notizia della battaglia solo dalla
radio, dalla televisione o dalla voce del muezzin. Il concetto di normalità in
Palestina ha dei parametri molto diversi dai nostri: quella che per me è stata
una notte di inferno per gli abitanti di Nablus è stata una notte come tante
altre, da molti anni a questa parte, una notte “normale”. Le incursioni dell’esercito
israeliano avvengono quotidianamente, le zone più colpite sono i quattro campi
profughi e la città vecchia. I segni
delle battaglie sono evidenti in queste zone della città: mura crivellate dai
colpi, palazzi disastrati o interamente distrutti e crollati. Nella parte
vecchia della città il crollo dei palazzi lascia dei vuoti “insoliti”
all’interno dell’antica struttura architettonica, gli israeliani li hanno
demoliti con l’esplosivo o addirittura bombardati con gli F16.
Molte lapidi ricordano chi è rimasto vittima
di queste incursioni. Una di esse riporta i nomi dei membri di un’intera
famiglia; la casa è stata fatta saltare in aria con tutti loro chiusi all’interno.
Questo solo per permettere ai soldati un ingresso ampio nei stretti vicoli
della città vecchia.
Il continuo
stato d’assedio è dato anche dalla posizione della città. Essa è situata in una
vallata circondata dai monti, sui quali ovviamente sono posizionate le basi
militari dell’esercito israeliano. A chiudere il cerchio i numerosi check-point:
Beit Iba, Huwwara, il 17, Beit Fouriq… uno più “problematico” dell’altro… Il
check-point 17, ad esempio, è aperto solo al transito delle ambulanze, mentre al
check-point che porta al villaggio di Beit Fouriq mi è stato negato il passaggio con l’ambulanza
del Medical Relief. Non ho ma avuto così tanti problemi come ai check-point che
circondano Nablus.
Ogni muro, ogni spazio di questa – come di
altre città palestinesi - è ricoperto di manifesti degli uccisi, i “martiri”,
come qui vengono chiamati. Non posso non soffermarmi sui loro volti: tantissimi sono giovani,
adolescenti, alcuni di loro addirittura bambini. Un manifesto appare attaccato
di fresco: leggo la data, 8 agosto. E’ un ragazzo presunto appartenente alla
Jihad, assassinato dalle “forze speciali”, le teste di cuoio israeliane che,
come in questo caso, agiscono perlopiù in borghese, penetrano nelle città
palestinesi, colpiscono a sangue freddo e escono dai territori occupati coperti
dall’esercito. Penso sia un atto criminale. Qualcuno mi racconta che quel
ragazzo non era più ‘attivo’ da molti mesi, e forse era pure sulla ‘lista di
Olmert’. Di recente, infatti, il governo israeliano ha pubblicato una lista di
persone cui è stato tolto lo status di “ricercato”. Sono anche stati liberati
250 detenuti palestinesi, in accordo e in avvicinamento con il governo di Abu
Mazen, governo nato in seguito alla presa di potere di Hamas nella Striscia di
Gaza.
Queste iniziative sono state pubblicizzate in
tutto il mondo per mostrare la volontà di pace d’Israele.
Sul campo però è tutta un’altra storia: non
solo Israele continua a compiere i cosiddetti ‘omicidi mirati’, assassinando
anche persone non più “ricercate” (che peraltro continuavano a vivere in
clandestinità, conoscendo perfettamente il gioco dei sionisti) ma mi è stato
raccontato che nella famosa ‘lista di Olmert’ sono state incluse persone che
prima non erano affatto ricercate.
Nel corso della mia permanenza a Nablus ho
anche raccolto l’atto di accusa di molte persone che criticano fortemente
l’Autorità Nazionale Palestinese. Ovviamente il disastro in Palestina è il
risultato dell’occupazione israeliana, ma una chiara responsabilità spetta
anche all’ANP. Le accuse della popolazione non risparmiano nessuno, al di là
degli schieramenti e dei governi succedutisi alla guida del popolo
palestinese.
Mi rendo conto dello stato di tensione
“interna” alla vista dei numerosi posti di blocco che la polizia palestinese ha
collocato in molte parti delle città. Dopo quello che è avvenuto a Gaza
l’Autorità Palestinese cerca di mostrare i muscoli e la città di Nablus paga e soffre
per questa situazione. Dato che qui l’occupazione israeliana è molto più
violenta, di conseguenza è molto più dura anche la resistenza, ‘islamica’ e
non. La situazione a volte rasenta il
ridicolo: i posti di blocco servono perlopiù a bloccare auto rubate. A volte
capita anche che vengano arrestati membri di Hamas. Ho assistito ad un arresto
del genere ed un amico mi rassicurava: “Tanto li rilasciano dopo qualche
giorno, è solo per mostrare a quelli di Gaza che qui non si scherza”.
Ed è proprio un ragazzo appartenente a Fatah chi mi sottolinea la ridicolaggine di
questa situazione e di questa polizia: “Stanno qui a fare i gradassi e poi quando
arrivano gli israeliani si danno alla fuga, spariscono”.
Il campo di Balata
è il più popoloso di Nablus ed è situato in una delle zone in cui maggiori sono
stati i crimini compiuti dall’esercito israeliano.
Ho visitato
Ahmad, colpito al collo da un proiettile e da allora rimasto invalido, e poi
Abdelfattah raggiunto mentre era davanti alla scuola da un proiettile sparato
da un carro armato. Mi mostra la ferita e mi racconta che credevano fosse morto,
lo avevano portato all’obitorio, stavano addirittura per infilarlo in una cella
frigorifera! Nell’osservare la ferita mi
chiedo in verità come possa essere vivo con un buco del genere sulla schiena…
Poi ho visitato
Basel, non ferito da un proiettile ma sbranato da un cane dell’esercito
israeliano all’interno della propria casa e poi ancora Mahmud colpito da un
proiettile alla testa è anche lui rimasto invalido.
Al di fuori
del campo Balata visito Islam, colpito da tre proiettili: non proiettili comuni
ma quelli che da queste parti chiamano “dumdum”, ovvero proiettili che
all’impatto con il bersaglio esplodono. Se penetrano nel corpo sono
praticamente mortali ed è un miracolo che lui sia ancora vivo. Adesso Islam vive
sulla sedia a rotelle, con la spina dorsale divisa in due tronconi e necessita
di un intervento altrimenti potrà vivere solo con l’ausilio della macchina per
l’ossigeno. La famiglia mi consegna una delle ultime cartelle cliniche di Islam.
Ogni famiglia ha delle richieste da fare ed io vorrei poter dare un aiuto,
subito, a tutti, d’altra parte se è
lecito fare una graduatoria dei “nostri” bambini palestinesi mi rendo conto che
il caso di Islam risulta essere uno dei più gravi.
Ho visitato
Zeid, ferito allo stomaco anche lui da un proiettile sparato da un carro armato.
Fortunatamente è stato colpito solo di striscio. Questo episodio è avvenuto all’interno
della città vecchia di Nablus. Mahmud, amico di Zeid, che era con lui, è
rimasto ucciso: all’epoca avevano entrambi 10 anni. Poi ancora incontro Imad colpito (sempre
nella città vecchia) da un “missile tattico” sparato da un elicottero Apache. Ovviamente
l’ordigno è caduto a qualche metro di
distanza ma lui in seguito all’impatto ha perso l’uso della vista. Aveva solo12 anni.
Quindi visito
Ali e la sua famiglia. Mi accolgono dentro casa e mi rendo conto dell’estrema
povertà nella quale vivono. Ali non ha un solo episodio da raccontare: è stato colpito
più volte da “proiettili di gomma”, “proiettili vivi”, poi picchiato sulla
testa con il calcio di un M16. I segni di questi crimini compiuti dall’esercito
occupante sono ben presenti su tutto il suo corpo.
E ancora:
incontro Ibrahim, ferito anche lui alla testa. I medici hanno utilizzato
parti di pelle tagliata dalle gambe per suturare la ferita. In seguito ha
subito altre operazioni, anche da parte di un gruppo di medici francesi. Come
se non bastasse è stato ferito pure alla gamba, in un episodio distinto dal
primo, accaduto di fronte la porta di casa. Anche Ibrahim e la sua famiglia
vivono in condizioni di estrema povertà e la casa sono solo due stanze di pochi
metri quadrati.
Il mio soggiorno
a Nablus si conclude visitando la famiglia di Husam, che vive nel villaggio di
Beta, distante dalla città pochi chilometri. Supero l’ennesimo check-point.
Husam è con il padre in Giordania per subire l’ennesima operazione chirurgica.
E’ stato colpito da 4 proiettili quando aveva 13 anni e da allora vive su di
una sedia a rotelle. E’ stato sottoposto a numerosi interventi fino a quest’ultimo,
necessario per l’insorgere di un’infezione. Le foto delle ferite che lo zio e i
fratelli mi mostrano sul computer sono impressionanti. Non trovo parole.
Tulkarem
Superato il il
check-point di Beit Iba trovo dall’altra parte Imad ad aspettarmi. E’ uno dei
medici dello staf del Medical Relief di Qalqiliya. Imad parla perfettamente
italiano perché ha studiato a Roma per molti anni. Con lui raggiungiamo Tulkarem
dove visito la clinica del MR: è molto ben organizzata anche se di modeste
dimensioni. Dopo una breve pausa e il consueto tè di benvenuto, inizio il giro
nella città.
Visito tutti e
5 i bambini di questa zona, tra cui due bambine, Barah’ nel campo profughi
Tulkarem e Iman nel campo profughi di Nur el-Shams, la prima colpita da un
proiettile di gomma e la seconda dai frammenti di un colpo di artiglieria
sparato all’interno della sua casa.
Mi preme
sottolineare che quando parlo di “proiettile di gomma” si deve intendere un
tipo di proiettile che “di gomma” ha solo il rivestimento: all’interno presenta
da un corpo di acciaio. Anche se questi proiettili non sono così pericolosi e
letali come i proiettili veri, possono però risultare fatali se vengono sparati
dalla cintola in su e, soprattutto, se lo si fa a distanza ravvicinata. Due combinazioni
che i soldati israeliani prediligono.
Continuo le
mie visite a Tulkarem recandomi nella casa di Muhammad, colpito, anche lui, da
un proiettile di gomma che gli ha causato la perdita di un occhio. Visito Ahmad,
l’ennesimo caso di bambino colpito alla testa, anche lui miracolosamente
sopravvissuto. Ha subito numerose operazioni e adesso vive con delle placche di
titanio in testa. Data la giovane età Ahmad, come altri bambini, ha avuto un
tempo di ripresa molto rapido e in effetti non vive più sulla sedia a rotelle e
riesce a camminare anche se con molta fatica. Il suo stato sia fisico che
mentale resta comunque molto grave.
Concludo il
mio giro a Tulkarem visitando Hamed, nel villaggio di Kafr ‘Abbush.
Hamed ha
appena 6 anni ed è il più piccolo fra i ‘bambini di Gazzella’ in Cisgiordania. Un
giorno di due anni fa si trovava assieme alla sua famiglia al check-point
vicino al suo villaggio: erano tutti in attesa di passare, diretti a Nablus. I
soldati hanno iniziato a sparare gas lacrimogeno che, come qualsiasi cosa in
dotazione dell’esercito israeliano, ha un livello di nocività maggiore rispetto
a quello usato in Europa, violando come sempre il concetto di “legalità
internazionale”. Hamed sotto l’effetto di questo gas è caduto, fratturandosi entrambe
le gambe.
Saluto Hamed e
la sua famiglia e ritorno verso Nablus. Lungo la strada che da Tulkarem porta a
Nablus noto un discreto movimento di mezzi israeliani. Incrocio una colonna di
jeep dell’esercito e al check-point di Beit Iba noto anche la presenza di mezzi
pesanti e bulldozer. In effetti gli israeliani si preparano a invadere la
città: quel giorno compiranno due ‘operazioni’, il pomeriggio stesso e la notte
successiva, la normale “guerra notturna” accennata sopra.
Jenin
A Jenin i
bambini sostenuti da Gazzella sono distribuiti su un’area più vasta.
Lo staff del Medical
Relief di Jenin, a differenza di quello di Nablus, ha deciso di operare nei
villaggi piuttosto che nella città o nei campi profughi. In Palestina casi di
bambini feriti se ne contano a centinaia, se non a migliaia. Non vi è zona in
cui non si conta un caso di un bambino ferito, mutilato, che ha subito le
conseguenze dell’occupazione israeliana. Non vi è famiglia che non conosca o
che non abbia subito direttamente casi del genere.
Il
responsabile del MR mi spiega che dopo il massacro dell’aprile 2002 avvenuto
nel campo profughi di Jenin tutte le attenzioni delle ONG e dei volontari
internazionali si sono concentrate su questo campo, così loro hanno preferito
portare aiuto anche nei villaggi più lontani, più isolati e di solito
considerati meno dalle organizzazioni locali e internazionali.
In due giorni,
i responsabili del Medical Relief ed io, maciniamo molti chilometri visitando
una decina di bambini, sparsi in tutta la regione nord della Cisgiordania. E ho
modo di rendermi conto che la situazione nelle campagne non è migliore di
quella dei campi profughi.
Visitiamo
Rawand e la sua famiglia. Sono molto poveri. Rawand e la sorella sono disabili
dalla nascita. Lei è stata colpita da un proiettile di gomma mentre era in casa.
Poi incontro
Ali. Il bambino è di origine beduina e vive in una tenda con la sua famiglia. Impieghiamo
circa un’ora prima di riuscire a localizzare il luogo dove attualmente
soggiornano. Anche se Ali e la sua famiglia non vivono nel classico campo
profughi dell’UNRWA, anche loro sono profughi del ’48. La famiglia è originaria
di Haifa. Sono pastori-beduini, diversi dai classici beduini del deserto. Il
padre mi intrattiene parlando della Sicilia, del Vesuvio e addirittura di Aldo
Moro. A differenza di molte altre famiglie da me incontrate, conoscono a
perfezione la data in cui è avvenuto il ferimento del figlio e l’età di tutti i
loro figli, cosa che a noi sembra normale ma che qui è da considerare una curiosità
di cui prendo nota.
Proseguo il mio
giro e visito Shahada. Nel 2003, quando aveva 11 anni, ha perso una gamba
saltando su una mina; oggi riesce a camminare grazie a una protesi. Lui e suo
fratello erano nei pressi della loro casa, giocavano per strada, e sono rimasti
incuriositi dalla mina che non hanno riconosciuto poiché aveva la forma di un pallone.
Nel villaggio
di Rummane, situato vicino alla linea verde, visito Nur e Muhammad.
Proseguo poi
il giro visitando Mujahed, ferito alla gamba da un proiettile e Abdallah
colpito alla testa da un proiettile di gomma. Il soldato ha mirato contro
Abdallah, quando lui aveva solo 11 anni, per ucciderlo; colpire alla testa a
pochi metri di dastanza con un proiettile di gomma significa infatti voler
uccidere. Anche Abdallah ha subito molte operazioni e di fatto il suo stato di
salute è simile a quello dei bambini colpiti alla testa da un vero proiettile.
Infine le
ultime visite nella città di Jenin e nel suo campo. Incontro Muhammad,
investito dalla deflagrazione di una bomba o di una mina lasciata dai soldati
durante l’invasione dell’aprile
Sempre a Jenin
visito Uday colpito in faccia da un proiettile che fortunatamente lo ha
trafitto nella parte della bocca non ledendo punti vitali. E infine incontro Saqer,
ferito alla gamba dall’ennesimo proiettile di M16. Ha un grosso buco lasciato
dal proiettile; il padre mi racconta che ha rischiato l’amputazione. Saqer e la
sua famiglia vivevano nel campo Jenin ma, in seguito al massacro compiuto dagli
israeliani nell’aprile 2002, al ferimento del bambino e soprattutto
all’uccisione di 3 suoi cugini e della nonna, la famiglia ha deciso di scappare
dall’inferno del campo. A causa di queste tragedie ovviamente tutta la famiglia
è profondamente provata soprattutto dal punto di vista psicologico.
Anche a Jenin
non ho potuto visitare un bambino data l’impossibilità di raggiungere il suo
villaggio: Barta’a. La storia del villaggio di Barta’a è davvero unica e vale
la pena accennarla. E’ stato tagliato in due nel ’48 dalla linea verde, per cui
la parte all’interno della Cisgiordania è diventa Barta’a al-sharqiyye ovvero Barta’a Est. Attualmente è tagliato fuori
dal resto dei territori palestinesi dal Muro che, virtualmente lo ha riunito
alla sua parte ovest ma, in pratica, lo isola sia dal territorio israeliano che
dal territorio palestinese. Si trova nella cosiddetta “no man’s land” ovvero
nella zona militare israeliana.
Finite le
visite a Jenin si torna a Nablus. Ora non mi resta che andare verso sud, verso
Hebron.
Verso
Hebron
Saluto con
calore lo staff del Medical Relief di Nablus con la speranza di poterli
incontrare al più presto. A voi sostenitori di Gazzella voglio rendere
testimonianza di quanto questa gente sia straordinaria. Sono persone veramente uniche. Lavorano in
emergenza 24 ore su 24. Ogni qual volta l’esercito israeliano occupa la città,
loro devono essere pronti ad intervenire e, ovviamente, non sanno quando questo
potrà accadere, se di giorno, o di notte; a volte ci sono più incursioni in uno
stesso giorno. Mi hanno raccontato che qualche anno fa, negli anni più cruenti
di questa seconda intifada, l’emergenza
è durata 18 giorni. Hanno passato diciotto giorni senza tornare alla loro casa,
senza pensare a mangiare o a dormire, sempre al lavoro, seguendo l’esercito
israeliano e la loro scia di morte e distruzione. I due autisti dell’ambulanza
hanno subito entrambi delle ferite d’arma da fuoco riportate mentre compivano
il loro lavoro. Uno è stato ferito mentre soccorreva altri feriti, l’altro
ferito alla guida dell’ambulanza. La stessa ambulanza è stata alla fine
rottamata, resa inagibile dalle tante battaglie combattute faccia a faccia con
l’esercito.
Ognuno di loro ha storie incredibili alle
spalle. Ancor più incredibili perché a subire le violenze è personale medico
che dovrebbe essere protetto da leggi e convenzioni internazionali. Sono
sempre in prima linea, insieme al personale della “Mezzaluna rossa”, ad altre
Società Mediche, a molti volontari… Non ho potuto trattenermi dal far loro una
domanda: ”E quelli della Croce Rossa?”, ho chiesto. “Dormono”, mi hanno
risposto. “Sono quelli che hanno
più potere ma non si muovono; invece di sfruttare questa prerogativa per
arginare le violenze degli israeliani, restano fermi, chiusi nel loro ufficio e
scrivono report, scrivono report, scrivono report…”
La prassi è questa: quando c’è un’emergenza
“Se
Guardo la
macchina del Medical Relief allontanarsi e tornare nell’inferno di Nablus e mi
appresto a passare il check-point di Huwwara, per lasciare la città
palestinese. Entrare a Nablus è risultato facile, uscire sarà molto dura. Mi faranno
uscire poi, ma non senza crearmi numerosi problemi e facendomi pesare il fatto
che: … se vuoi entrare, fai pure… a tuo rischio e pericolo!.. ma non pensare di
poter uscire facilmente… Ho passato un’ora e mezza di attesa, in compagna di un
soldato che mi vorrebbe rinchiudere in un buggigattolo che loro usano come
cesso! Cerco di origliare i discorsi dei soldati. Non conosco l’ebraico ma
cerco di cogliere, in base al contesto, l’argomento del dialogo. Sembrano molto
interessati al mio ‘caso’ ma, alla fine, me – come si suol dire – me la cavo:
per me solo attesa e tanta pazienza.
Prendo un taxi
collettivo diretto a Ramallah e da lì ne prendo un altro per Betlemme. Percorro
la strada che tutti chiamano Wadi Al Nahr.
Potrei passare per Gerusalemme, sarebbe più rapido, ma preferisco fare “la strada
dei palestinesi”, un po’ per solidarietà, un po’ a causa dei numerosi problemi
che ultimamente ho avuto ai check-point. Entrare a Gerusalemme risulterebbe più
complicato, dovrei superare il check-point di Qalandia, che nell’arco di un
solo anno ha subito un cambiamento mostruoso e ora somiglia ad una frontiera
internazionale.
Così faccio la
strada che tutti i palestinesi fanno per andare dalla parte nord alla parte sud
della Cisgiordania, aggirando Gerusalemme, metà proibita per loro, i
palestinesi.
Si transita
per una strada più grande che costeggia l’insediamento di Male Adumin, usata
anche dai coloni. A dire il vero questa è la cosiddetta “strada dei coloni”. Poi
si percorre una “strada per arabi”, piuttosto tortuosa, tutta curve e tornanti.
In un ora e mezza, massimo due, se non
si hanno problemi al check-point “Container”, ( punto d’ingresso a sud), si arriva a Betlemme. Bisogna ricordare
che Ramallah-Betlemme, in linea d’aria, distano solo qualche chilometro.
Il tassista mi
dice che dal prossimo anno la strada a scorrimento veloce, quella che costeggia
l’insediamento di Male Adumin, verrà interdetta ai palestinesi. Gli israeliani
stanno costruendo una nuova strada solo per i palestinesi, in modo da isolarli
e segregarli ancora di più. Questo vorrà dire anche più tempo per percorrere
pochi chilometri, ancora più isolamento tra il cantone sud dei territori
palestinesi e i cantoni del nord. Senza poter transitare sulla cosiddetta
“strada dei coloni” sarà inoltre complicatissimo raggiungere Gerico dal sud e
questo prenderà molte ore. Ma, soprattutto, tutti questi cambiamenti
significano nuovi terreni confiscati, metri e metri di terra rubati ai
palestinesi, tutto il tratto che va da Qalandia fino a Male Adumin inglobato
nella colonia - la più grande della Cisgiordania – e inglobato quindi nella
Grande Gerusalemme Ebraica, nuova terra per
Hebron
Trascorro la
notte a Betlemme e il giorno dopo mi dirigo a Hebron: un altro taxi collettivo,
altri check-point e altre colonie che
costeggiano tutto il tratto che va dalla città natale di Gesù alla città di
Ibrahim al-Khalil, ovvero Abramo.
Arrivato in
città incontro i responsabili del Medical Relief e inizio subito le visite. Anche
ad Hebron i bambini sono localizzati su un’area piuttosto ampia: impiegherò due
giorni per visitare tutti i 10 bambini ‘adottati’ in questa zona.
Le prime sono
tre bambine: Dia’, Nisreen e Bisan, che abitano nel campo profughi di Al Fawwar
situato a una mezz’ora di macchina a sud di Hebron. Dia’ è stata colpita al
volto da una bomba sonora. E’ un tipo di arma usato per disperdere e stordire
ma la cui vicinanza può risultare fatale. Nisreen, invece, è stata colpita da
un proiettile di gomma al collo e Bisan colpita al volto e agli occhi dai
frammenti di un colpo sparato da un carro armato. All’epoca aveva 7 anni ed era
il periodo delle operazioni criminali di Sharon denominate “scudo di difesa”.
Nella regione
di Hebron e più precisamente nelle campagne attorno al villaggio di Dura visito
altri 4 bambini: Nureddin, Sa’eq, Saifeddin e Bahir. Sa’eq e Bahir colpiti alla
testa da proiettili di gomma, Nureddin ferito ad entrambe le gambe da due
proiettili e Saifaddin colpito da più proiettili di gomma in uno stesso
momento. Tra le tante armi usate dagli israeliani vi è infatti la classica
bomba a grappolo, adattata ai proiettili di gomma: in un solo colpo vengono
liberati 15 di questi proiettili (biglie ricoperte da un sottile strato di
gomma) che colpiscono a caso in tutte le direzioni.
Questi 4
bambini hanno in comune il fatto di essere stati feriti mentre andavano a
scuola, come d’altra parte la maggior parte dei bambini da me incontrati,
colpiti mentre andavano a scuola o all’interno delle loro abitazioni.
Nei dintorni
del villaggio di Idhna visito Amira. Questa bambina è forse l’unica dei bambini
adottati in Cisgiordania a non essere stata ferita dai soldati israeliani.
Amira è rimasta ferita in seguito a un agguato dei coloni, compiuto di fronte
casa sua. La storia è straziante.
Era il 19
luglio del 2001. Amira aveva solo 2 anni
e mezzo, stava tornando a casa con la sua famiglia dal villaggio di Idhna,
distante solo un paio di chilometri. Giunti di fronte casa hanno incrociato una
macchina di coloni che ha aperto immediatamente il fuoco contro di loro. Anche
in questo caso i proiettili sparati furono del tipo ad esplosione. Rimasero uccisi
lo zio di Amira che aveva 21 anni, un cuginetto di appena 2 mesi e mezzo e un
altro ragazzo sempre della stessa famiglia. La macchina dei coloni proseguì a
tutta velocità raggiungendo immediatamente Israele, essendo la linea verde
distante pochi chilometri dal luogo del massacro.
L’eccidio
all’epoca non passò inosservato e i familiari di Amira mi raccontano che
addirittura
A raccontarmi
i fatti è il nonno di Amira che nel massacro compiuto dai coloni ha perso il
figlio e il nipotino neonato. Non traspare emozione dalle sue parole, non una
lacrima, forse non ne ha più, le ha spese tutte. Mi parla in un perfetto
inglese - a volte inusuale da queste parti -. Mi racconta tutto del massacro,
particolare dopo particolare e, infine, mi mostra la lapide posta sulla strada
a memoria dell’eccidio compiuto dai criminali sionisti. Trova pure il tempo e
la gentilezza di parlarmi dell’Italia, sapendo che vengo da lì. Lui è stato a
Bari nel ’97 per comprare una macchina per raccogliere le olive. Ricorda con
nostalgia quel periodo, perché anche se non c’era la pace perlomeno si
lavorava, si viveva, mi dice. Lo saluto e mi scuso per avergli fatto rivivere quei
momenti terribili. Mi sorride, mi porge la mano, e anzi mi dice che per lui è
un bene ricordare… Io non trovo le parole, quasi mi vergogno, salgo in
macchina, ripartiamo.
Non facciamo
in tempo a percorrere qualche metro che proprio nei pressi dell’incrocio di
fronte alla casa di Amira noto un discreto movimento: mezzi da lavoro, camion,
scavi, tubature, i classici lavori in corso. Si svolgono sotto l’attenta
sorveglianza di una jeep di soldati e la presenza anche di qualche colono. Al
responsabile del Medical Relief chiedo di cosa si tratti; mi dice che stanno
compiendo dei lavori al sistema idrico, stanno deviando i corsi d’acqua che
provengono da Beit Jebrin (villaggio palestinese al di là della linea verde,
distrutto nel ’48 dai sionisti, colonizzato e convertito nel nome di Bet
Govrin) per incanalarli verso le colonie, e tagliare quindi le risorse d’acqua
al villaggio di Idhna. E tutto questo a pochi metri da quella lapide…
L’ultimo bambino da me visitato è Hani, nel
villaggio di al-Karmil nell’estremo sud della Cisgiordania. Nelle vicinanze di
questo villaggio c’è una base militare israeliana, un giorno Hani era al
pascolo con le pecore e proprio nei pressi della base è rimasto investito dalla
deflagrazione di una mina. Uno dei suoi fratelli è rimasto ucciso, un altro
ferito in modo non grave. Hani invece è stato colpito principalmente allo
stomaco. E’ rimasto molti mesi in ospedale e ha subito ben 8 interventi
chirurgici. La ferita ha lasciato dei segni impressionanti che il bambino mi
mostra senza imbarazzo. Con Hani concludo le mie visite a Hebron e con esse il
mio viaggio in Cisgiordania.
Torno verso nord, mi trattengo qualche giorno
tra Gerusalemme e Betlemme per poi ripartire per l’Italia. Un ultimo ostacolo, l’areoporto
Ben Gurion, con i suoi interrogatori, che risultano per fortuna più semplici di
altre volte.
Prima di concludere questa sorta di diario, vorrei
sottolineare una mia riflessione.
Una volta tornato ho passato molti giorni a
ripensare, a confrontare le storie di tutti questi bambini, storie molto simili
fra loro. Ho tentato con la mia mente di collocarle nel passato,
un passato recente ma comunque passato.
Poi (errore) ho provato a buttar giù una statistica (vizio tipicamente
occidentale) e ho notato che la maggior parte dei bambini è rimasta ferita
durante gli anni più duri dell’attuale intifada, ovvero il 2002 e il 2003. Ma
sistematizzare non ha funzionato. Anche
la primavera dello scorso anno non è stata da meno, quando, all’indomani della
vittoria di Hamas, Israele ha compiuto “punizioni collettive” contro tutto il
popolo palestinese.
In effetti questi miei pensieri sono
risultati vani, e le notizie che provengono dalla Palestina mi risvegliano e mi
riportano alla realtà, la realtà violenta dell’occupazione israeliana.
Il 4 settembre scorso a Nablus durante
un’invasione dell’esercito israeliano che ha coinvolto 30 veicoli militari,
Rami, un bambino palestinese di 8 anni è stato colpito alla testa da un
“proiettile di gomma” e versa in gravi condizioni. Altri due bambini, di 14 e
di 15 anni, sono stati colpiti nello stesso episodio riportando ferite meno
gravi.
A Jenin il 6 settembre la stessa storia:
l’esercito invade la città e lascia dietro di sé 2 bambini feriti. Uno, colpito
da un “proiettile di gomma”, non è grave ma è stato operato per poter rimuovere
il proiettile (di gomma!) dal suo corpo. Un altro invece versa in gravi
condizioni ed è stato ricoverato d’urgenza in un ospedale israeliano, segno
della gravità del caso.
Scrivo questo per sottolineare che ogni
singola storia da me raccolta si ripete quotidianamente, le sofferenze che ho
condiviso con ogni singola famiglia coinvolgono adesso nuove famiglie, i casi
di altri bambini feriti si ripetono e con loro si moltiplicano i dolori del
popolo palestinese.
In Palestina non esiste un periodo più
tranquillo di un altro, la tranquillità è un concetto relativo e finisce non
appena una jeep dell’esercito entra nel campo e comincia a sparare; non esiste
un periodo migliore di un altro, non esistono statistiche e numeri ma esiste
solo uno stato di guerra permanente, continuo, che non ha logica e che serve a corrodere le speranze dei palestinesi e la
loro tenacia nel resistere e nel sopravvivere. Una guerra di annientamento
costruita dai sionisti giorno per giorno, centimetro su centimetro.
E’ proprio la mancanza di logica a dare a
volte un senso di frustrazione psichica ai palestinesi.
E se una logica c’è, di fatto questa è
proprio quella dell’annientamento. Un tipo di annientamento più evidente, come
quello portato avanti nella Striscia di Gaza, o quando avvengono le grandi
operazioni di guerra, oppure un tipo di annientamento più nascosto, quotidiano,
ingannevole, psicologico, perpetrato nei periodi considerati (e da noi
spacciati come) di relativa calma, ma in realtà saturi di tensione continua,
che consuma l’esistenza dei palestinesi. Erode la voglia di vivere.
La situazione è drammatica. Ma, bizzarramente,
sono stati proprio loro, i palestinesi che ho incontrato a darmi speranza.
Nonostante tutto resistono. Mi hanno fatto ricordare le parole di un giovane
partigiano diciottenne, fucilato dai fascisti. “… verrà un giorno “ - scriveva
nel suo ultimo pensiero – “che il cielo tornerà azzurro, le mamme non
piangeranno e le ragazze riprenderanno a sorridere…. Non commiserate la mia
sorte, voi avrete un mondo migliore…”
Francesco